La vita e la via della conoscenza oltre l’interesse e il non-interesse

Argomento affrontato molte volte, certamente capito, ma compreso?
Quanti dei fatti che ci accadono in una giornata, ci interessano? E quanti sono invece oltre la dicotomia interesse/non-interesse e sono da noi semplicemente vissuti in virtù di una scelta fatta a priori?
Un genitore, quando ha deciso di essere genitore, ha accettato consapevolmente e inconsapevolmente ciò che quella scelta avrebbe comportato: le notti in bianco, le ansie, le gioie, le fatiche, i conflitti, le identificazioni. Un genitore, in merito alla sua funzione, non dice mi piace/non mi piace, accoglie quella funzione esistenziale con tutte le implicazioni che comporta e lo fa per la semplice ragione che essa precede il favore o lo sfavore decretato dalla mente, non è il frutto di una sua decisione, è qualcosa che è stato scelto su di un piano diverso da quello dell’identità e porta l’imprinting della coscienza. Per lo meno in molti casi, non in tutti, evidentemente.
Dei fatti che accadono in una giornata, quanti sono stati scelti perché interessanti, e quanti invece sono impliciti nella scelta di lavorare, di avere una relazione affettiva, di abitare in una città, o in aperta campagna?
Nel momento in cui si compie la scelta di lavorare, anch’essa esistenziale, conseguono i tempi di viaggio, la ripetitività delle mansioni, le gratificazioni e le frustrazioni quotidiane.
A volte, queste implicazioni intrinseche alla scelta compiuta ci pesano così tanto che ci logoriamo, altre volte riusciamo ad integrarle nella routine dei giorni e alla fine ci piace quel ritmo, quello scorrere ci rassicura e sentiamo che costituisce la nostra vita e quella delle persone a cui siamo legati.
Il vivere stesso, i giorni, i mesi, gli anni, gli eventi, il significante e l’insignificante non obbediscono alla logica dell’interesse/non-interesse: hanno un senso e un scopo più profondi del gradimento espresso da un’identità, la precedono e portano il sigillo del sentire.
Certo, quando una identità si mette di traverso e rifiuta l’esistere che i giorni le riservano, il conflitto tra quella identità e la coscienza che genera lei e quei fatti può divenire molto doloroso: non poco del soffrire umano nasce da questo conflitto.
Quando una identità riesce ad accogliere il progetto esistenziale che si dispiega e di cui è parte, cogliendone il senso, o semplicemente accogliendone l’accadere, allora una vita scorre senza insormontabili asperità ed è illuminata da una fiducia di fondo.
La scelta di una via interiore, di un cammino di conoscenza-consapevolezza-comprensione rientra nel lungo elenco delle scelte esistenziali: ogni via ha una sua funzione, porta un suo insegnamento e invita ad essere perseguita fino all’esaurimento della funzione esistenziale di cui è portatrice.
Naturalmente va tenuto in conto che la via altro non è che l’abito transitorio ed impermanente del cammino di conoscenza-consapevolezza-comprensione, e che la fedeltà non va tanto alla via, all’abito, quanto al principio che la genera.
Chiarito questo, bisogna dare ad ogni via il modo di esprimere la propria funzione e questo richiede tempo e dedizione.
Certo, ci sono vie chiaramente propedeutiche e transitorie, ma in questo caso non parlerei di vie, piuttosto di approcci, di possibilità: una via, proprio perché via, ha una completezza in sé e risponde alle domande di base come a quelle più complesse; è composta da un sentiero appena tracciato e scosceso, da tratti pianeggianti, da mulattiere, da dislivelli marcati e ben segnalati, oppure privi di qualsivoglia indicazione.
Il compito di una via spirituale è di offrire al viandante gli strumenti necessari nel mentre il suo sentire cambia e con esso le forme e le domande della sua identità: una via non può essere assillata dalla questione del piacere/non-piacere, interessare/non-interessare: essa si offre al procedere personale e il viandante la percorre senza porsi il problema dell’interesse, allo stesso modo di come veste la funzione di genitore, di lavoratore, di colui che vive i giorni che gli sono dati di vivere.
Allo stesso modo di colui che sta salendo la montagna ed è consapevole che ciò che conta è il procedere e il perseguire il processo che conduce in cima al monte: guarda il panorama che si apre allo sguardo e il sentiero che calpesta e non disperde le proprie energie nel giudicarlo, o nel rifiutarlo; considera che quello è, quella è la sua vita, quello il presente a cui ad ogni passo si dedica e da cui impara il necessario.
Una via richiede una scelta, una risposta ad una chiamata, ad una maturità che è sorta nel proprio interiore, e quando questa risposta è data diviene un fatto che esiste a priori, che accompagna ed è implicito in tutti i processi che seguiranno: come per il genitore, non si torna indietro. Possono cambiare le forme del procedere, e dunque le vie che di certo cambiano di vita in vita e all’interno della stessa vita, ma non l’adesione al processo della conoscenza-consapevolezza-comprensione, alla madre di tutte le vie, e questo per la semplice ragione che il compreso non si azzera.
Si impara a stare all’interno di una via, allo stesso modo di come si cerca di stare all’interno della vita: oltre la dicotomia, la tensione tra interesse/non-interesse.
Se una via è senza fine monitorata nella logica dell’interesse, morirà ben presto agli occhi di una identità: non morirà per un suo limite intrinseco, ma per un limite del viandante che l’ha guardata con gli occhi sbagliati.
Se la via è vissuta come una scelta fatta a priori sul piano del sentire ed è indipendente dall’interesse, allora non rimane altro da fare che viverne le possibilità che apre.
Il genitore non chiede mille volte perché è genitore; il viandante smette di interrogarsi sulla natura della via della conoscenza e obbedisce alla chiamata del processo di conoscenza-consapevolezza-comprensione che prende anche la forma di quella specifica via che sta percorrendo.
Cosa mi propone oggi il mio essere genitore? Cosa il mio vivere? Cosa la mia via? Quello vivo.
Oltre l’interesse/non-interesse, conferisco forma al mio essere genitore, al mio vivere, alla scelta/possibilità/necessità della conoscenza-consapevolezza-comprensione.
Se la via mi presenta un muro bianco per ore, quello vivo.
Se mi offre l’ascolto dei vissuti di altri, quello vivo.
Se mi chiede di espormi, quello vivo.
Esattamente quello che faccio con un figlio piccolo, con un essere che ha un bisogno, con una situazione che richiede una mia presenza: vado oltre l’interesse ed obbedisco ad una chiamata del sentire.
Non rimango di qua dal muro dell’identità, dentro le sue preferenze: salto il muro e dico un sì alla vita che si offre adesso in quella forma.
Viene un giorno in cui questo osare diviene possibile e il mondo non è più visto come il teatro delle proprie preferenze, ma come l’immenso scenario delle possibilità che ci vengono offerte e che, per essere vissute, abbisognano di un superamento della logica delle preferenze.
Posso aspettare un treno e non annoiarmi; posso avere giornate vuote di stimoli e semplicemente stare senza conoscere il tedio di quell’assenza; posso alzarmi senza motivazione e andare a letto senza bilancio e non avvertire mancanza alcuna.
Posso vivere aldilà di quello che mi piace e non mi piace. Se questo non mi riesce ed è oltre le mie possibilità, allora è giusto che io cerchi ciò che mi gratifica ed abbandoni tutte queste logiche che non mi appartengono e che non mi conducono da nessuna parte.
In questo caso debbo abbandonare la via che seguo, perché non è di una via che ho bisogno, ma di altro. Debbo essere onesto con me stesso.
Se invece posso risiedere oltre interesse/non-interesse, allora è tutto molto semplice: riconosco che ogni fatto è e scompare, mi attraversa, ora lasciando un sedimento, ora nella più completa irrilevanza.
Riconosco la vita che accade oltre il muro dell’identità: valico quel muro, salgo sulla mia piccola barchetta fatta di foglie di canna e mi abbandono alla corrente del fiume.


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Roberta G

Grazie, Roberto!
Leggerò con interesse ciò che scriverai a proposito…

Samuele Deias

Piccoli piaceri quotidiani ritmano e rendono più affrontabili le giornate. Ad es. i pasti. Chiaro che tutto è effimero ed impermanente ma al contempo irrinunciabile. L’andare oltre è la vera sostanza ma ultimamente sembra meno accessibile

Maria De Blasi

Tutto molto chiaro..!
Grande l’ immagine dello scalatore che salendo accetta tutto quello che si presenta nel suo cammino :lo scenario meraviglioso e lo strapiombo che fa venire le vertigini….

ma poi certi passaggi mi arrivano come un pugno nello stomaco…
“Posso vivere aldilà di quello che mi piace e non mi piace. Se questo non mi riesce ed è oltre le mie possibilità, allora è giusto che io cerchi ciò che mi gratifica ed abbandoni tutte queste logiche che non mi appartengono e che non mi conducono da nessuna parte.
In questo caso debbo abbandonare la via che seguo, perché non è di una via che ho bisogno, ma di altro. Debbo essere onesto con me stesso.”
ma l’identità e’ comunque presente..anche se in vari gradi.. e cercherà’ sempre per sua natura una forma di gratificazione..ancora ricado in questo dilemma..perche’ negare questo suo bisogno..lo sento tanto “innaturale”…quasi una forma di castrazione..sicuramente il mio nodo…o ancora il dubbio ..forse non sono pronta?

Roberta I.

Tutto molto chiaro, grazie. Ragionare in termini di piacere/dispiacere o interesse/disinteresse è qualcosa che non mi appartiene da tempo. Quando qualcuno mi chiede se qualcosa mi piace o mi interessa, non riesco mai a rispondere sì o no, comincio sempre la risposta con: non è questione di piacere o di interesse… Ci possono essere cose per me difficili da compiere o da capire mentalmente, ma la difficoltà non è motivo di rifiuto a fare o a cercare di capire. E’ da fare, si fa… con i mezzi che si hanno a disposizione. Mentre scrivo mi rendo conto che dietro il meccanismo del piacere/dispiacere c’è il bisogno di conferme dell’identità. Gratifica ciò che rinforza il senso di essere qualcuno, così come ciò che mette in discussione la propria immagine viene messo nella categoria di ciò che non piace e quindi da rifuggire.

Roberta G

Il post dice, tra l’altro…: Cosa mi propone oggi la vita? Quello vivo. Oltre l’interesse/non interesse. Con fiducia. E aderendo la processo della conoscenza-consapevolezza-comprensione.
D’accordo.
Grazie alla frequentazione di OE e a tutto ciò che abbiamo letto/detto insieme, la scorsa estate ho vissuto un periodo di accettazione serena di ciò che c’era, con fiducia, le mie ansie/insoddisfazioni erano assenti.
Adesso mi sento poco incline ad osservare/tacere/risiedere in me stessa e l’ansia di vivere “di più” è tornata.
Ho deciso di assecondarla per un po’ e vedere dove mi porta… devo ammettere che ne sento già la stanchezza, vorrei vivere con maggiore pace, ma cercherò di andare avanti nel mio progetto…
E’ veramente solo una “droga” questo fare, un qualcosa di cui non si è mai sazi, la madre di tutte le identificazioni? Oppure la mia è una vera esigenza di sperimentare?
Posso avere degli spunti per un migliore discernimento?

natascia

Dopo che ho letto il post e i vari commenti, aspetto che sorga una parola da poter condividere. A volte sorge chiara, a volte necessita di varie cancellature, prima che esprima con aderenza ciò che sento. Quanto descritto nel post mi è sufficientemente chiaro. Come si arriva ad andare oltre il giudizio del mi piace/non mi piace, mi interessa/non mi interessa e così via. Premesso che non è una meta che una volta raggiunta, si è conquistata per sempre, almeno per me e, come dice Marco si alternano ricerca del piacere e dello stare, anche se sempre meno il primo aspetto mi coinvolge. Nel mio percorso esistenziale credo di essermi avvicinata alla comprensione di questo modo di stare, a causa del peso degli eventi che mi sono capitati. Quando c’è una mole di dolore e la fatica è tanta, è necessario andare oltre il senso comune dell’appagamento dell’identità. Forse non è stata una scelta, ma una necessità, supportata da una fiducia di fondo e di cui sono profondamente grata.

Marco Dellisanti

Lavavo i piatti prima. Di solito fatico a stare a lungo su quello che faccio. Mi sorprendo a pensare a ciò che farò dopo. Che il più delle volte è suonare un po’. Oggi ho apprezzato il rumore dell acqua, il privilegio del suo calore, il movimento della spugna sui piatti. Non c’era attesa. C’era solo il gesto, lo scorrere dell acqua e le sensazioni che da essi venivano. Potrei dire che era piacevole. Ma altre volte, come dicevo, non è così. Altre volte penso a ciò che farò dopo, al suonare, che è una cosa che mi piace. Oggi dunque ero semplicemente in quel che facevo.
Ricerca del piacere e stare. Convivono. Si alternano.
Devo essere onesto con me stesso. Cerco ancora il piacere. Ma evidentemente la ricerca del piacere non mi basta più.

Nadia

Ho già letto ieri questo post ma commentare è sempre complesso, perché non so utilizzare le parole per esprimere ciò che sento…quello che affermi è chiarissimo, oserei dire, compreso: oltre la fiducia per il fluire delle giornate, delle settimane c è anche un’infinita gratitudine che fa accogliere i fatti fuori dalla logica interessa/ non mi piace. La via è stata non solo intrapresa ma interiorizzata, nonostante a volte rimpiangi quando non eri consapevole e riuscivi a mandare qualcosa o qualcuno a quel paese!
Grazie.

Luciana Gelli

Forse quella che traduco a volte come indifferenza nell’assenza di “mi piace/non mi piace” è invece quell’abbandonarsi e vivere senza nulla chiedere, lasciare scorrere….. sì, è proprio così! Grazie Robi!

Sandra

Grazie Roberto è chiaro.

Catia Belacchi

Lungo la via gli interessi scemano, poi scompaiono e si procede leggeri.

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