L’identità, il sentirsi d’esistere e l’infinita ricerca del significante

L’identità è simile ad un cane da caccia, instancabilmente alla ricerca di una traccia olfattiva il secondo, di un motivo per sentirsi d’esistere la prima.
Tutta la ricerca del nuovo, dello stimolante, dell’interessante, del curioso, dell’attraente, dell’eccitante, del significante altro non è che l’infinito simbolo di un ologramma che ricerca i segni della propria concreta esistenza: non trovandoli, essendo essa niente altro che una interpretazione, una lettura, una etichetta sul modo di vivere e di relazionarsi con i fatti, il dubbio dell’inconsistenza la pervade e la conduce ad una ricerca senza fine di conferme.
Ecco allora che nella tua vita non manca niente, eppure sembri privato di qualcosa.
Ecco che negli attimi in cui vivi pienamente i piccoli fatti, s’insinua un pensiero, un desiderio d’altro: non sai da dove viene, niente ti mancava ma si è insinuata quella brama sottile e fugace d’altro, di nuovo, qualcosa che rompa l’ordinario dei fatti come un fiore che germoglia in una crepa nel cemento.
Perché questo accade? Per sentirsi d’esistere, perché l’identità si senta d’essere.
C’è un altro, più profondo e più vasto sentirsi d’esistere, più significante e molto più appagante che si può contattare solo oltre la dinamica identitaria appena descritta: è quel sentirsi d’esistere che è il frutto dell’essere sentire, coscienza che è e si esprime nel divenire.
Un passo più in là del bisogno identitario di trovare un appiglio, una certezza, una concretezza legandosi ad una eccitazione della mente e dell’emozione, disconnessa quella ricerca, trovato un appoggio sullo zero, ascoltando il diffuso essere che emerge si coglie la presenza ineffabile, la radice di ogni esistere profonda come il fittone di una quercia e ugualmente stabile: la coscienza d’essere.
Dono del silenzio di sé e del non essere caduti nella effimera ricerca di senso sul piano dell’identità.


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Roberta G

E’ un’argomento che mi chiama, che mi interpella, che mi rivela quanto l’identità sia avida di senso e di stimoli.
Roberto dice: “Non bisogna dunque lasciarsi bloccare dal dilemma: si sente la spinta, si sperimenta, si cerca di ascoltare in profondità cosa cade e cosa rimane e alla fine si osserva il tragitto esistenziale che si è compiuto.”
Credo sia importante osservarsi mentre si sperimenta, osservare l’identità che si erge, che trae soddisfazione, che, nel fare, trova sollievo alla paura del vuoto, al deserto dell’assenza di stimoli.
Il deserto di cui scrive Roberta…credo che occorre un forte atto di fiducia per accettare di starci e di attraversarlo..!
Grazie a tutti per i commenti, per le domande e per le risposte!

Nicoletta

Grazie.

natascia

Molto interessante questo post, come lo sono tutti i commenti. Mi pare di capire che l’identità, così spesso presa di mira, perché rappresenta la parte egoica e quindi più “primitiva”, venga in qualche modo rivalutata, come assolutamente necessaria al processo che dalla conoscenza porta alla comprensione. Certo questo è stato detto tante volte, ma nelle parole “Perché questo accade? Per sentirsi d’esistere, perché l’identità si senta d’essere.”, colgo un passaggio importante. L’identità è lo strumento imprescindibile per ampliare il sentire, almeno fino a quando il sentire non sarà così ampio per cui l’identificazione perderà la sua funzione. Si passerà “dell’essere sentire” alla “coscienza d’essere.” . Un percorso lungo, che attraverserà tante vite. Grazie.

alberta

SpuntI di riflessione profonda, compresi i commenti. Devo rileggere tutto con calma Grazie

Anna

Molto interessante.
Grazie

Marco Dellisanti

Grazie. Domani lo rileggerò

Nicola

Vivo le parole di questo post nelle sedute di zazen, durante il quale gli stimoli esterni sono ridotti.
E’ qui che la danza/lotta tra identità e coscienza si dispiega in modo lucido.
Nella vita quotidiana, specialmente in questi ultimi mesi in cui stanno affiorando nuove non comprensioni, l’identità è protagonista: mi è difficile tornare subito allo zero, ma analizzando poi il vissuto riesco a dare un’analisi lucida di quanto accaduto.
Sto imparando, come dice Roberto, che è una questione di esperienza e comprensione.
Questo periodo è funzionale alla coscienza per acquisire nuovi dati; se dovessi usare una metafora mi sembra che l’identità venga mandata in esplorazione del non conosciuto per fornire alla coscienza tutti quegli elementi da elaborare per creare nuova comprensione.

nadia

Chiaro…importanti anche i commenti…grazie.

Sandra

Dopo essere stata un po’ nel silenzio provo a dare e darmi una risposta: credo che attraverso una profonda conoscenza delle proprie dinamiche, paure, pretese… possiamo distinguere le due spinte, e se sbagliamo sarà comunque una nuova esperienza. Il processo di conoscenza, consapevolezza e comprensione credo sia la chiave.

Samuele Deias

Questo post è una pietra miliare.
Capita pure un processo inverso, ossia che un’identità si senta sopraffatta dagli stimoli esterni e senta il desiderio di qualcosa d’altro, di più essenziale, radicale. Sono quasi scappato da un carnevale i cui stimoli giungevano a me come frastornanti; un vuoto urlato. Magari è depressione e quindi una faccenda identitaria. Magari invece la coscienza si serve di questo per favorire un ritorno allo zero. Va’ a capire!

Roberta I.

La distinzione tra sentirsi di esistere dell’identittà e sentire di esistere della coscienza mi è chiara, almeno credo, e dico credo preché tracce d’identità si insinuano ancora nei momenti in cui la coscienza affiora alla consapevolezza, come per abbeverarsi a quella fonte e farsi bella del profondo senso di realtà che si rivela con i suoi colori, profumi, suoni. Le sensazioni che si acuiscono, il senso di ogni cosa che si impone da sé… non c’è attribuzione di significato, o scopo, o utilità, in riferimento a un sé, ai suoi bisogni o desideri, alle sue opinioni, eppure appena può l’identità è pronta ad appropriarsi del vissuto. In fondo è tenero tutto questo, quando lo sguardo della compassione riesce a cogliere quel momento di appropriazione, per lasciarlo volare via nel nulla da dove è arrivato.
Non è stato sempre così. In passato l’esaltazione identitaria e l’autoattribuzione del senso che traspariva da ogni cosa presto sopravveniva a confondere le acque, e non era facile allora discernere. Campeggiava un forte bisogno di darsi valore e del riconoscimento altrui di quel valore ed esso prevaleva sulla voce silente del sentire. Quel tempo mi sembra così lontano, eppure il ricordo è vivo… e ora mi commuove.
Nel mezzo c’è stato il deserto, un deserto durato anni, dove non c’era più alcuna ricerca di senso o di eccitazione per sentirsi di esistere, ma non c’era neppure quel sentire d’essere che solo può dare vita al senso nel divenire.
Non posso che ringraziare questo cammino che mi ha dato gli strumenti per discernere, anche se so che c’è ancora molta strada da fare…

Sandra Pistocchi

Chiedo per maggiore chiarezza: come distinguere la spinta identitaria che cerca senso o più semplicemente illusoria sopravvivenza, dalla spinta della coscienza che magari usa mezzi come entusiasmo, eccitazione, attrazione ecc per spingere a nuove esperienze foriere di dati e comprensioni? Grazie

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