Agire nel mondo mossi dalla compassione, non dalla protesta

Scrive Melania: La lotta alle ingiustizie, quando fermarsi, quando riconoscere che è l’identità che sbraita invece di convincersi di esser mossi dal giusto sentire? […]
Cioè, tutto ci interpella, ma se incontri una vecchina caduta in terra la aiuti a rialzarsi? Ovvio! Se sparano a un nero per il colore della sua pelle manifesti l’assurdità di questo gesto, se convocano in tribunale un minore straniero non accompagnato senza motivo ne chiedi le ragioni, se accusano una freelance per un falso ma il suo capo era connivente, pretendi che lei non sia la sola a pagare: ma quanto ci riguarda davvero tutto questo e in che termini? […]
Vuoi far finta di niente? Sicuramente tu non sei indispensabile e essenziale al destino del negro, del minore, della freelance, ma appunto, l’immagine che costruisci di te e che specchi ogni mattina è quella di chi poteva incidere, nella sua minima magari infinitesimale parte?
Cioè, agisci perché vuoi un ruolo? Un ruolo salvifico? Fai barriera come abitudine? […]
Ecco, riassumendo, io potrei pensare – detta finemente – ai cazzi miei e non farmi toccare da questi fatti? Si! Però sono le tre di notte e sto qui a scrivertene, questo è: mi giro dall’altra parte e mi giudico in un modo, mi sbatto e mi giudico in un altro…
Il nocciolo credo sia tutto qui, la mia identità si sta giudicando come “contestatrice”, me lo dico spesso e ci dondolo, a volte contestatrice mi pare un complimento, altre un’accusa.

Mentre leggo la lunga lettera di Melania vedo scorrere la mia vita, le mie motivazioni, le scelte che mi hanno guidato per decenni.
Vedo quello che ero e quello che sono ora. Vedo alcuni elementi di continuità e molti di discontinuità.
Quando sono cambiato? Quando mi è divenuta chiara la natura del reale:
– pensavo che l’ingiustizia fosse un dato del reale, inoppugnabile, mi sbagliavo;
– pensavo che il mondo fosse un luogo sbagliato, governato da logiche sbagliate, mi sbagliavo;
– pensavo ci si dovesse impegnare per realizzare un mondo migliore per tutti, mi sbagliavo.
Perché mi sbagliavo? Perché, lo ribadisco, non avevo compreso la natura del reale.
– Pensavo di poter e dover esprimere il senso di giustizia e d’amore che c’era in me: non mi sbagliavo, tutta la vita non ho fatto altro.
– Pensavo di non chiamarmi mai fuori, di assumermi le responsabilità senza mai scansarle: non mi sbagliavo, magari male, ma non ho mai fatto altro.
Amore e giustizia, binomio indissolubile: solo col tempo ho compreso che non riguardavano il mondo, ma me, il mio mondo interiore.
La rivendicazione di una giustizia è la declinazione di una spinta d’amore: chiediamo giustizia per gli altri, per il mondo, ma siamo innanzitutto noi tenuti ad essere giusti.
Quando siamo giusti? Quando c’è allineamento tra il sentire conseguito e l’agire identitario. Allora siamo giusti ed onesti, innanzitutto con noi stessi, e specchiamo quello che siamo nel mondo senza curarci del benefico che esso ne trarrà.
Premesso questo, posso trattare ulteriormente alcune questioni già ampiamente discusse qui.

La natura di ciò che ci appare come ingiusto
Se abbiamo compreso la natura del reale, non possiamo parlare di ingiustizia: perdonatemi, ma se parliamo di ingiustizia testimoniamo la nostra incomprensione, e dunque dovremmo impiegare le nostre energie per vedere meglio, per analizzare più a fondo, per acquisire nuovi strumenti di analisi, nuovi e originali paradigmi perché, evidentemente, quelli che usiamo non decodificano la natura e la funzione dei fatti che accadono.
Ciò che le persone vivono è lo specchio di ciò che sono nel compreso e nel non compreso;
ciò che vivono è funzionale a comprendere meglio e più a fondo;
ciò che vivono, di qualsiasi cosa si tratti, è ciò che loro è indispensabile per procedere.
Dunque ciò che vivono non è un accidente, né, tanto meno, è ingiusto: è esattamente quello che può essere, visto il sentire e le comprensioni e non comprensioni da cui le persone muovono e che generano le scene che si trovano a vivere.
Ne consegue che il mondo è quello che può essere, specchio del sentire di coloro che lo popolano.

Il mondo non è sbagliato
Se il mondo non è sbagliato, né un luogo d’ingiustizia, se è lo specchio dei sentire e dei karma personali e collettivi, allora la nostra protesta deve placarsi, le nostre energie devono direzionarsi diversamente, l’amore che ci attraversa deve trovare altri sbocchi.
Il mantra del mondo sbagliato è il pane quotidiano delle menti e delle identità che non sanno quello che dicono e si nutrono delle loro proteste, si sentono vivificate da quella ribellione, giustificate nel loro esserci e rafforzarsi in virtù della protesta.

Il problema non è cambiare il mondo, ma se stessi
Il mondo è quello che siamo: io cosa sono? Cosa proietto, a quali scene conferisco corpo e realtà?
Questa è l’unica questione reale: la mia vita, come la vita di tutti, è il frutto di ciò che sono. Posso cambiare? Voglio farlo?
Non c’è via di fuga: se cambio io, cambia la mia vita e il mio mondo; se cambi tu, cambia la tua vita e il tuo mondo.
Cambia il nostro mondo, se cambiamo noi.
Posso ribellarmi a quello che tu sei, a quello che fai? Si, certo, posso metterti un argine, posso contenere i danni che provochi – e ho di certo il dovere di farlo – ma non sarà questo che ti cambierà, né cambierà il mondo che tu proietti.
Debbo cambiare me, non essere quello che detesto in me e in te, realizzare nella mia vita quella giustizia cui ambisco, quella che voglio per il mondo deve sorgere nei miei giorni, nei miei modi, nel fluire di me.

Obbedire all’amore e al senso di giustizia che ci attraversa
Se viviamo questa spinta al giusto e al vero, incarniamola, diamogli spazio, facciamola divenire gesto feriale, disposizione che ci illumina la strada nelle ore della nostra vita: non disperdiamo le nostre energie nella protesta, diveniamo coerenti nell’azione, nella relazione, nelle anse più nascoste dei nostri comportamenti e dei nostri pensieri.
Questo può essere il centro del nostro vivere, questa chiarezza sempre ricercata e mai realizzata in modo esauriente, perché processo e dunque sempre imperfetta.
Poi, quando sparano all’immigrato andiamo pure a manifestare; quando vediamo un sopruso diciamo pure la nostra, attiviamoci individualmente e collettivamente, ma facciamolo con l’animo di chi coglie la natura del mondo, di chi la conosce e la respira, non del povero infante che grida la protesta della propria egoità frustrata e bisognosa di senso.

Agire nel mondo mossi dalla compassione
Se abbiamo compreso la natura del mondo e delle persone che lo abitano, in noi non ci sarà spazio per la protesta, ci sarà invece il sorgere di una disposizione nuova e infinitamente più matura: costruire insieme al nostro prossimo le condizioni per il passo successivo, più evoluto nel sentire del passo precedente.
Questo significa adattare la propria idealità, il proprio slancio al passo possibile all’altro.
Il mondo è composto da tante micro e macro “corporazioni” ideali e di sentire che procedono ciascuna per conto proprio mettendo se stesse al centro: invece al centro dovrebbe esserci il possibile per tutti, quel possibile che tiene conto delle molte sensibilità e dei molti sentire in campo.
Questa è la funzione della politica, la sua altezza: indicare una meta reale per una moltitudine di sentire estremamente differenziati e realizzarla procedendo assieme, non come fazioni in continuo conflitto, ma come cellule di un organismo collaboranti.
Per potersi muovere in questa direzione, l’amore che ci spinge deve assumere le qualità della compassione e, attraverso la conoscenza e la consapevolezza, deve evitare di tradursi in ribellismo e protesta.
L’amore compassionevole ci permette di tenere assieme l’evoluto e l’inevoluto, l’intelligente  e l’ottuso, l’egoista e il generoso.
Il ribellismo ci porta a gridare nelle piazze e non muove nemmeno un grano del reale.


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Nadia

Che dire…grazie a Melania per lo spunto di questo post il cui contenuto arriva ancora in maniera dirompente!

Anna

Mi commuove leggere la descrizione della tua esperienza Roberto che mi rispecchia completamente.
Proprio nell’ultimo periodo sono diventa maggiormente consapevole delle mia parte identitaria e sento che le esperienze presenti parlano proprio di questo.
Rileggero piu volte il post….
Grazie

Sandra

Le ggendo queste parole, che pur non incarnandole ancora in pieno le sento profondamente, arrivano sensazioni di maturità e completezza.

Nicoletta

Quanto avvenuto a Sciacca in questi giorni (avvelenamento di cani randagi) tra l’omertà della popolazione, suscita in me sensazioni di impotenza e ingiustizia. Ecco, se per gli umani riesco a trovare una giustificazione anche per gli atti più terribili, attraverso la legge del karma, per gli animali non riesco a comprendere. Mi sembrano solo vittime sacrificali in un contesto le cui meccaniche non riesco a capire.

Alessandro B

Grazie!

Antonella

Grazie, per ricordarcelo.

Maria b

“Dunque ciò che vivono non è un accidente, né, tanto meno, è ingiusto: è esattamente quello che può essere, visto il sentire e le comprensioni e non comprensioni da cui le persone muovono e che generano le scene che si trovano a vivere.” Condivido pienamente anche se non so quanto poi questa consapevolezza si traduca in prassi di vita. Mi chiedo : se ciò che sono e’ lo specchio delle mie comprensioni, mi vedo meno allineata ora tra la spinta identitaria e il sentire di coscienza rispetto al passato. O forse ora ne sono più consapevole, non so, sicuramente avverto forte la necessità di armonizzare le spinte che mi abitano.

paolo Carnaroli

La partita si gioca tutta nella propria interiorità, incluso il discernimento del comportamento da tenere. Se ci riflettiamo bene questo approccio è l’unico che può consentire la piena gratuità dell’agire, quando il sentire personale è sufficientemente ampio

Marco Dellisanti

E’ vero: se n’è già discusso. Ma, come dicevano i latini, “repetita iuvant”!
Lavorare su di sè, agire quando è necessario ma comprendere anche che ogni scena è funzionale all’evoluzione di ciascuno.
Grazie

Luciana Gelli

Parole che arrivano a segno. Grazie di ricordarci questa attitudine!

Samuele Deias

Grazie pur nella consapevolezza di quanto poco io riesca a “comprendere”.

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