Quando l’umano è nel bisogno forte ed urgente, si rivolge ad un Dio che diviene per lui un interlocutore definito, un Tu che prende forma nell’urgenza esistenziale del momento.
Quando quell’urgenza non c’è e l’interiore è disteso, la persona che non ha ricevuto una educazione religiosa tradizionale, sfuma quel Tu e i suoi contorni si perdono.
Chi scrive non ha ricevuto alcuna educazione religiosa, né l’ha coltivata: nell’intimo suo non si è formata una immagine dell’Assoluto, né la propensione a nominarlo e ad interloquirlo.
Eppure, chi scrive, ha una precisa comprensione della natura unitaria dell’essere “suo” in quello assoluto: il conferire un nome all’Assoluto, l’invocarlo, l’immaginarlo, lo stesso sceglierlo come interlocutore gli sembra limitante e fuorviante la realtà di uno stato delle cose.
Gli sembra che nell’interlocuzione stia l’errore, nel costruire una relazione io/Tu quando non esiste alcun io/Tu, né esiste alcun Tu da qualche parte che non sia anche quell’io.
Nella separazione si interloquisce, si entra in relazione, si invoca, si ringrazia, si celebra: l’umano, vivendo prigioniero della sua comprensione duale dell’esistere, scorge sempre un tu separato da sé e sempre si interroga sulle relazioni, sull’altro e su di sé.
Ma quando non c’è più alcun tu e alcuna separazione nel sentire? Quando è evidente che la molteplicità è solo apparenza effimera e transitoria?
L’umano perde il suo nome e tende a non attribuire più alcun nome a coloro che incontra: allo stesso modo rifugge ogni immagine interiore di Dio, evita accuratamente che nel suo intimo possa anche solo accennarsi il sorgere di un alterità del principio assoluto.
Dio, l’Assoluto esiste finché esisto io: esiste come riferimento, come luogo/entità/essere universale ed assoluto; ma quando io non sono più, con me scompaiono le idee su Dio, l’immaginario sul divino con tutto il suo corollario di distinguo, di divisioni, di frammentazioni, di parzialità proprie delle menti e delle identità.
Quando l’umano scompare a se stesso, anche Dio scompare.
Cosa rimane? La percezione d’esistere e d’essere indistintamente Uno.
L’Assoluto, Dio, smette di essere qualcosa e qualcuno, un luogo/entità/essere, e diviene un’esperienza non nominabile, non immaginabile, non descrivibile né comunicabile.
Ribadisco: ad un certo punto non è più possibile nominare, interloquire, immaginare, descrivere, comunicare Dio. Non è più nemmeno possibile avvicinarsi a quella pratica dell’infanzia interiore che chiamiamo preghiera, adorazione, celebrazione.
Non solo non si può più questo, ma non si può nemmeno più assecondare quel sottile moto interiore dell’identità che, a volte, increspa sottilmente e va a generare un frammento di alterità di Dio cui potersi rivolgere e aggrappare.
È un moto sottile dell’identità che, nel momento in cui, nell’esperienza unitaria e indistinta, crea un appiglio, un Tu appena accennato, lo fa per definire sé, non per sostanziare l’Altro.
L’identità, rivolgendosi ad un Tu, definisce di nuovo se stessa.
Visto il gioco, possiamo, dobbiamo disconnetterlo: allora torna quell’immergersi silenzioso e dolce nel non essere proprio e di Dio, e nell’Essere dell’Uno che mai ha conosciuto il due.
Dio non ha volto né nome, non ha contorni né definizione: la persona che vive l’unità dell’essere non parla di Dio come non parla di sé, non aspira a Dio come non brama qualcosa per sé essendo oltre sé ed oltre Dio.
Dio è un’idea dell’umano: tramontata quell’idea, Dio è la conoscenza in atto, la consapevolezza in atto, la comprensione in atto, l’essere dei mille esseri in atto.
Siccome tutto è Dio e tutto è in Dio, chi può parlare, comunicare, pregare, adorare, celebrare chi?
Solo nella separazione avviene il circo dell’umano, nell’unità non c’è più circo alcuno, ma questo non significa che non ci sia esperienza precisa ed inequivocabile di Dio: c’è l’unica esperienza possibile e reale, non ideologica, non fondata sul bisogno e sul desiderio ma sulla realtà dei fatti, del sentire, dello sperimentare.
Nel sentire accade questa esperienza, il sentire che dell’unità abbraccia ciò che gli dato abbracciare.
Ho riletto questo post per la seconda volta e sono emerse cose che non avevo colto. Post da meditare ancora…
Grazie
Mi ritorna alla mente quando ci consigli di evitare i ringraziamenti.
Sento che è così, ma spesso mi perdo.
Comprendo le argomentazioni del post e so di essere ancora nella dualità
Ahahah forte Samuele!
Sento che è come descrivi, ma in me il duale ancora impera…prendo atto e cercherò di fare attenzione ogniqualvolta si innescherà questo automatismo. Grazie.
L’esperienza religiosa tradizionale richiede la preghiera rivolta ad un Dio altro da sé. È un processo importante per uscire dalla fase narcisistica di chiusura nel proprio io. Poi progressivamente si fa strada ciò che hai descritto. Per tanti anni ho interpretato quella mia reticenza interiore nel nominare Dio come un deficit di coraggio e non volevo portare alla piena consapevolezza quell’impressione che ci fosse tanta costruzione mentale in taluni che lo nominavano spesso e con grande disinvoltura. Eliminando progressivamente le resistenze dell’identità, la Vita mi ha condotto verso quelle esperienze necessarie per lasciar affiorare ciò che era già nella mia coscienza, una comprensione che si era strutturata
Mi dispiace ma non è come dici tu. Nella Bibbia c’è scrituo che Dio fece l’uomo a Sua immagine e somiglianza. Questo significa che Dio è una persona, come puoi vedere anche in tanti quadri. Ha una bella barba, un bel fisico e…. oddio, dici che avrà anche un Pisello?
Ahahah!
Grazie del prezioso post che assai poco c’azzecca col tenore di questo commento ma solo agli occhi di chi giudica ed è nel duale!
P.s. non è che con la tua bella e lunga barba bianca conservi qualche velleità? 🙂 😉
Grande Samu!!
Vedo che hai scritto pisello con la P grande: il pisello assoluto!