“Quando ami sul serio, fai tutto in funzione della felicità dell’altro”.
Desidero commentare questa espressione, non conosco personalmente il suo autore e il suo pensiero e non intendo polemizzare con lui, mi interessa solo la sua espressione in quanto comune a molti in ambiente cristiano-cattolico.
Ad una prima analisi superficiale, l’espressione è condivisibile soprattutto perchè sottende un principio: non della mia felicità mi curo, ma della tua; anzi, realizzo la mia servendo te.
Ad un’analisi più approfondita, l’espressione mostra i suoi limiti: se ti amo opero, agisco, mi muovo con la finalità, con lo scopo di renderti felice?
E perché? Hai forse bisogno tu di qualcuno che ti serva, che ti renda felice? Non sei capace di edificare da te la pienezza della tua vita? Hai bisogno di me?
La felicità realizzata attraverso un altro? Ci sarebbe da chiedersi di quale felicità parliamo: perché qualcuno ci ama? Perché ci hanno donato qualcosa? Non è altro la felicità, quello stato che giustifica l’uso di questo termine così assoluto? E non ha a che fare con la realizzazione piena di un’esistenza, la felicità, piuttosto che con lo sperimentare uno stato effimero e transitorio che coinvolge tutto l’essere con discrete preminenze identitare?
E, se anche tu avessi bisogno di me, se la vita che tutto e a tutti provvede, questa volta volesse provvedere a te attraverso me, bene, nell’amore vero esso mi attraverserebbe come una volontà, una spinta che mi conduce oltre me, oltre la mia volontà, il mio altruismo e il mio egoismo: attraverso me tu avresti ciò che ti necessita e, subito dopo io dovrei scomparire dalla tua scena, lasciando che sia la vita, eventualmente, a riposizionarmici.
Non io dunque farei tutto in funzione tua, ma la vita farebbe anche attraverso me in funzione tua: è molto, molto diverso.
Il mio amore è tale ed è vero perché vuole renderti felice? Perché se non ha quello scopo, quella finalità non è amore?
L’essenza dell’amore è rendere felice l’altro? Non direi.
Allora questo mio fare tutto in funzione della tua felicità, se non è legato ad un tuo bisogno – dal momento che tu provvedi per conto tuo, come è giusto e naturale essendo tua la vita e dovendo trovare giustificazione in essa senza dipendere da altri – a cosa è legato?
Voi mi direte che la felicità si costruisce assieme, nella relazione, e dunque quella espressione è ovvia e naturale nella dimensione di un amore vero, altruistico.
Dubito. Compaiono nell’espressione due assoluti: l’amore vero e la felicità.
L’amore vero non ha bisogno di niente: né di ricevere, né di dare perché sa che ciò che esiste è perfetto, in tutte le sue forme perfetto: dunque l’amore non ripara le ingiustizie, né soccorre i sofferenti affinché non soffrano più, semmai sostiene i sofferenti in modo che abbiano le forze per affrontare la prova.
L’amore vero non può avere come fine la felicità, questo altro assoluto impropriamente chiamato in campo, ma, semmai, la costruzione delle condizioni di quella felicità, condizioni che sempre si riconducono al processo di conoscenza, consapevolezza, comprensione.
Esso si dà, non c’è un soggetto che lo dà. Se ti amo e faccio tutto in funzione della felicità tua, io sono il soggetto, tu l’oggetto, l’amore è il mio provvedere.
Questa è una forma d’amore, forse, ma non possiamo parlare d’amore vero, il quale non ha soggetto, è un fare e un non fare, è una naturale inclinazione a servire, a rendersi utili entro una grande misura, sommamente attenti a non travalicare il confine del compito esistenziale che spetta all’altro, al quale mai dobbiamo sostituirci.
L’amore vero è misurato, non è quel darsi senza misura che parla di qualcosa d’altro, di un bisogno di sé, non di un essere vuoti di sé e divenire solo servizio.
L’amore vero non ti toglie un dolore quando ti è necessario, anzi, fa un passo indietro e lascia che tu possa imparare da quel soffrire. Semmai, come dicevo, ti è a fianco supportandoti nel tuo soffrire affinché tu possa attraversare il processo di apprendimento.
L’amore vero non ti accudisce, si inchina davanti a te: anche quando tu hai bisogno di accudimento, questo accade entro una grande misura perché l’amore realizza sempre la tua autonomia, la tua dignità e mai fa che altri a te si sostituiscano.
Fare in funzione della felicità dell’altro è una distorsione: facciamo ciò che sorge nel nostro interiore, secondo le comprensioni che ci guidano; quando un impulso d’amore ci attraversa, non siamo noi a fare, è l’amore che fa nella misura che ritiene necessaria e quel fare non ci riguarda, né lo giudichiamo, né lo misuriamo.
L’esperienza insegna che l’amore autentico è sempre misurato, discreto: l’espressione citata non è, purtroppo, né misurata, né discreta, parla di una totalità che ci rimanda più ad un anelito ideale che ad una pratica consumata nel reale.
Mi permetto di concludere dicendo che è difficile, per chi conosce l’amore che attraversa e mette al margine per andare incontro all’altro, descrivere quell’esperienza con le parole citate, ma immagino che l’autore volesse dire altro e probabilmente non lontano da quanto qui affermato.
Forse più appropriata poteva essere questa espressione: “Quando ami sul serio, ti metti a disposizione dei processi di comprensione dell’altro”.
Post stimolante e chiarificatore, grazie!
L’amore liberato dai bisogni identitari. Mi sembra di intuire questo. Grazie
Grazie per questo approfondimento ., Si credo sia come dici, il concetto d,’amore vero è molto piu’ ampio.
” Quando ami sul serio fai tutto in funzione della felicità dell’altro”.
Il post è chiarissimo, e tu sai che la penso allo stesso modo. Volevo cercare di esprimere, in merito alla frase virgolettata, questi miei pensieri.
A prescindere dal nostro concetto di amore, che non è quello della frase, penso che ci raccontiamo delle balle se pensiamo che siamo capaci di un affetto illimitato per l’altro tanto da far tutto in questa funzione. Anche quando vogliamo veramente bene all’altra persona, figlio o coniuge che sia, permane sempre una parte egoica che pensa anche alla propria felicità, non si annulla per la felicità dell’altro e non deve farlo. Poi cosa si intende per felicità? Uno stato di benessere psicofisico? Un momento di esaltazione emotiva?
Penso che questo termine sia abusato come quello di amore. Ciascuno per sé e per l’altro non deve aspirare alla felicità ma a quello stato di allineamento interiore che lo fa essere presente a se stesso in ogni circostanza, senza perdere il baricentro anche quando è nelle difficoltà.
Se riusciamo in questo allora, forse, può succedere di provare leggerezza e fiducia, ma non saprei se chiamare questo stato, felicità.
Spiegazione ben lontana dall’idea dell’amore che mi sono fatta in prima adolescenza con la lettura degli Harmony!
Grazie!
Grazie Roberto !
Grazie Roberto! grazie di cuore.
Grazie Roberto!