“Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Tutto passa, solo Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto. Chi ha Dio non manca di nulla: solo Dio basta!
Il tuo desiderio sia vedere Dio, il tuo timore, perderlo, il tuo dolore, non possederlo, la tua gioia sia ciò che può portarti verso di lui e vivrai in una grande pace”
Paolo mi ha condiviso questo brano di Teresa D’Avila, invitandomi a dire qualcosa sull’evoluzione dello spirito e del sentire contemplativo.
Quando in me si è dischiusa la vocazione contemplativa, la ricerca non è stata lunga e in maniera naturale sono approdato allo zen, l’impersonale per antonomasia, il mondo del Ciò-che-è.
Sono approdato nel cuore della questione di ogni contemplativo: coltivare l’esperienza del vivere a prescindere da sé, superare la propria meschina centralità, uscire dalla morsa del divenire e vivere l’Essere in ogni presente che accade.
Quando ho potuto leggere Doghen, il fondatore del Soto Zen, in un adattamento dal giapponese antico a quello moderno curato dal maestro Koho Watanabe, e in una traduzione italiana curata da monaci forgiati da un’esperienza autentica, mi si è rivelato un mondo nel quale mi specchiavo pienamente e interamente: il mondo dell’Essere, dell’irrilevanza del soggetto, di Ciò-che-è come unica realtà reale.
Dunque in me non c’è stata una particolare evoluzione, un qualche balzo nel sentire: c’è stato uno sprofondare in qualcosa che già conoscevo e comprendevo e che mi trovavo a penetrare nel dettaglio.
Tutto il lavoro successivo, più di 30 anni, è stato un tentativo di scendere nelle viscere di quello, di quel sentire che era già lì, cercando di liberare un linguaggio – non una comprensione perché oggi comprendo fondamentalmente come allora – che desse plasticità, comunicabilità, possibilità di trasmissione al sentito e che costruisse una filosofia, una pedagogia e una didattica del compreso e dell’esperienza contemplativa così come può essere vissuta fuori dalle tradizioni religiose.
Leggendo le frasi di Teresa, trovo il conosciuto, lo sperimentato, l’assodato per chiunque viva la dimensione contemplativa, e lo trovo espresso in quel linguaggio limitato proprio di tanta tradizione cristiana prigioniera della visione duale: anche quando l’esperienza è indubitabilmente alta, il linguaggio rimane indietro e questo parla di un’area dell’essere del contemplante che non si è ancora affrancata dalla logica del due e non è integrata pienamente nella dimensione dell’Uno che coinvolge ogni aspetto del vivere, compresa l’espressione linguistica.
Si dice che solo la poesia, l’arte in genere, o il silenzio possono esprimere l’Uno che viene sperimentato nella contemplazione: non condivido; il linguaggio dello zen ne è la prova, il tentativo di Meister Eckkart anche, in parte, e, per quel poco che conta, anche la nostra esperienza dicono che dell’Unità contemplata si può parlare e può divenire ambito di sperimentazione attraverso una appropriata didattica anche per il praticante non totalmente dedito ad essa.
Quando l’esperienza contemplativa non riesce ad essere espressa, comunicata, questo dipende dalla struttura di personalità, dalla conformazione dei corpi transitori e dalle relazioni tra essi e, molto spesso, da una mente che non si è adeguatamente sofisticata nei mezzi e negli strumenti per divenire idonea a quella trasmissione.
La questione centrale riguarda la fine del soggetto, il suo superamento nella percezione di sé, nella concezione delle relazioni, nella interpretazione del reale e dunque, infine, nel linguaggio.
La lingua esprime l’animo delle persone: le molte lingue di questo paese e di tutto il pianeta specchiano mirabilmente gli animi di coloro che le parlano.
Gli animi forgiano le lingue e queste plasmano quegli animi e quelle identità che di quelle lingue abbisognano, non gli altri.
La trasformazione interiore frutto della pratica contemplativa, plasma inesorabilmente l’interpretazione e il linguaggio con cui essa viene espressa: naturalmente, ci sono molte ragioni per cui, a volte, viene usato un linguaggio più arretrato di quello possibile, ad esempio per adattarsi alle possibilità di comprensione di un interlocutore non avvezzo al linguaggio astratto impregnato di infiniti piuttosto che di declinazioni soggettive di essi.
Se voi osservate il linguaggio che viene utilizzato frequentemente in questo sito, trovate una sovrabbondanza di verbi all’infinito: essere, stare, risiedere e quasi mai le loro declinazioni: io sono, io sto, io risiedo.
Evolvendo il sentire, il linguaggio si fa neutrale e rispecchia una comprensione conseguita: siccome so che non c’è alcuna reale soggettività, vivo l’inconsistenza di questo qualcosa che chiamo io, me, ed ecco che la conseguenza più immediata è quella di superare la composizione convenzionale della frase con il soggetto, il verbo declinato, ecc.
La frase viene formulata ponendo al centro l’esperienza, non il soggetto che la vive.
Se si vuole comprendere l’esperienza contemplativa si deve partire da qui: non c’è contemplazione in presenza di un soggetto, di qualcuno che dice io.
La contemplazione è l’irruzione del Reale e il dissolversi del limite, del particolare, del soggettivo: spero comprendiate l’enorme portata di questa affermazione.
Ora, esiste la possibilità di entrare in questa dimensione, di familiarizzare, di educarsi alla disposizione contemplativa se si dispone di una base nel sentire già acquisita, ovvero di una vocazione di una qualche profondità.
Se non la si possiede, è meglio dedicarsi ad altro e allora pochi momenti di silenzio, di stare, di risiedere ci basteranno.
Ci sono persone che possono scendere, per comprensione conseguita, in questo abisso del Reale che li chiama e li risucchia: l’esperienza li plasmerà, li affinerà, permetterà loro di decodificare le mille sfumature degli stati interiori di quello sperimentare.
Dunque c’è un’evoluzione, anche se, in apertura, ho affermato che le mie comprensioni di 30 anni fa sono le stesse di adesso: parlo delle comprensioni di cui sono consapevole e non so cosa altro, a livello profondo e inconscio, è stato conseguito in maniera parziale o definitiva; quel che è mutato, quello che di certo si è arricchito è la possibilità di vedere consapevolmente il dettaglio degli stati, dello spettro dell’esperienza contemplativa e di collocarlo nell’insieme del vivere, di incastonarlo nelle letture del reale, nelle interpretazioni, nel paradigma più generale in uso.
Se allora vedevo l’elefante nella sua imponenza e magnificenza, oggi vedo e sperimento quello assieme ai dettagli della sua pelle, del suo odore, del suo sguardo, del suo essere-elefante.
È sempre l’elefante, dunque è quella la comprensione, ma quanto si è affinata!
Grazie per la condivisione, credo di avere compreso ciò che intendi.
Letto e rìletto…grazìe…
Il tempo di masticare il pane un po’ più duro.
Ho letto, ma ora non vengono le parole. Forse non ho compreso, forse sono stanca. Ho bisogno di altro tempo.
Grazie. Credo che lo rileggerò.
Grazie!
Riconosco quanto qui viene espresso sul rapporto tra linguaggio e contemplazione. Non è possibile dire “io” in certi momenti, quando scompare ogni senso di appropriazione e ogni cosa è restituita a se stessa. Tuttavia trovo importante essere sinceri con se stessi e non aver paura di dire “io”, se nell’io si sta risiedendo, magari in una relativa consapevolezza della sua illusorietà. Mi sembra a volte, che negli ambienti “spirituali” (almeno quelli che ho avuto modo di frequentare), diversi tendano ad utilizzare il linguaggio del paradigma condiviso più per conformismo che per reale comprensione e trovo che questo non giovi all’opera di svelamento di sé e di trascendimento del soggetto, ma al contrario il linguaggio stesso sia funzionale al rafforzamento di una certa “idea” di se stessi, come persone sulla via, come persone che fanno un percorso, come persone che hanno “trasceso”…
Assenza di parole: niente da dire,
niente da chiedere. A volte si risiede nel silenzio, a volte nel fare, a volte in una situazione di distacco che forse è neutralità.