Discussione sulla natura dell’identità

Riporto due commenti al post del Cerchio Ifior La vera spiritualità è quella che tutto comprende perché a partire da essi voglio poi sviluppare una riflessione e, se possibile, una discussione.

Samuele: Mi interrogo questi giorni sul nostro approccio verso l’io (o meglio su come l’ho capita io).
Ingombrante, illusorio, obnubilante, ecc.
Mi sembra spesso di cogliere un atteggiamento di repulsione verso l’io e ciò che si trascina dietro.
Le parole dei Maestri restituiscono un’apertura che non sono ancora capace di sintetizzare ma di cui avverto la pregnanza.
In fondo non ce lo siamo inventati noi questo io, tutti ce l’abbiamo e dobbiamo in qualche modo trovargli una collocazione positiva nel Grande Disegno. 

Mariella: Anche io Samme, in questi giorni, mi ritrovo a fare le stesse considerazioni sull’Io, ravvisando a tratti un atteggiamento quasi “cattolico” verso l’Io, considerandolo un inciampo, meritevole di qualche frustata!!! Il vecchio atteggiamento insomma. Forse perché mi manca il giusto equilibrio tra Essere e Divenire, perché dovrei salire sul monte più spesso, perché ancora fatico a disidentificarmi. Se riuscissi a fare tutto questo potrei vivere pienamente il mio Io, per poi sorriderne. Come dire vivo pienamente l’illusione consapevole di ciò che è.

Samuele parla del nostro approccio, intendendo con quel nostro la visione del Sentiero? La visione di noi umani? Opto per la prima ipotesi e sottolineo le innumerevoli volte in cui abbiamo parlato dell’identità cercando di considerane le funzioni nel cammino esistenziale di ogni essere.
In questo momento non voglio riassumere il nostro compreso in merito, lo farò magari durante la discussione, mi interessa invece mettere in luce questo: perché sia Samuele che Mariella parlano del’Io/identità come ostacolo, sentendosi, Samuele, rincuorato quando le Guide “restituiscono un’apertura”?
Chiedo ai nostri due compagni di viaggio (consapevole che essi dicono cose piuttosto diverse nei loro molto diversi commenti):
1- perché dei mille angoli visuali sull’Io da noi proposti negli anni, isolate questo dell’ostacolo?
Per una rimembranza cattolica? Può darsi, ma spiega poco.
Perché sabato, durante la Via del monaco, ho parlato dell’Io come diaframma che si interpone, che copre l’accesso alla Sorgente?
Vi chiedo: è l’esistenza dell’Io in sé che vela la Sorgente, o è l’adesione/identificazione nostra alla rappresentazione/interpretazione che l’Io propone, che la ottunde?
Vi chiedo ancora:
2- Non avete in voi stessi sperimentato quanto l’adesione alla narrazione identitaria sia fuorviante la realtà e quanto ottunda l’accesso alla Realtà?
E ancora:
3- Avvertite la necessità di “salvare la pelle dell’Io”? Ovvero di potere affermare tra voi e voi che esso non è il male in modo da riappacificarvi con voi stessi, con i vostri limiti, con le vostre non comprensioni e poter dunque affermare: sono limitato, ma questo non rappresenta per me un problema.
Bene fate ad affermare questo, perché a me sembra che dietro la questione dell’Io ci sia una certa difficoltà ad accettarsi per come si è.
Naturalmente tutti dicono che bisogna accettarsi per quello che si è, ma io, in sincerità, non me la sento di unirmi al coro di una affermazione che non significa niente.
Accettare cosa? Le non comprensioni? Ma se la vita altro non è che superare le non comprensioni?
Accettare l’identità figlia delle non comprensioni? Niente è più volubile e variabile dell’identità che muta senza fine e di certo ogni volta che un tassello di comprensione si aggiunge.
Forse accettarsi per quel che si è significa non sviluppare conflitto con un processo di trasformazione che è ineluttabile per ogni umano e dunque immettersi nel flusso della corrente che ci porta a cambiare senza fine, facilitandolo consapevolmente?
Ecco, questa è una risposta che ha un senso: so che in me c’è una inquietudine per come sono, per come mi interpreto, per come mi manifesto e non faccio finta che non ci sia, non cerco di silenziarla, non voglio essere in pace con me stesso, accetto di non essere in pace perché questa inquietudine è il sale della vita, la beata inquietudine che mi rende vivo e mi conduce alla meta dell’unione ultima.
Se quell’inquietudine diviene conflitto e rifiuto, sto eccedendo: se invece mi rode come un tarlo e mi porta a dubitare di me, ad osservarmi, a propormi di fare meglio allora è benedetta.
Avete voi bisogno di non sentire il morso di quel tarlo, la presa di quell’inquietudine?

Fino a quando ci sarà identità, ci sarà inquietudine e senso di inadeguatezza che sorgono dalla consapevolezza profonda che le comprensioni sono ancora in divenire, che la coscienza chiede ancora dati, che il processo dell’unificazione è incompleto.
In sé non esiste niente che si possa chiamare Io: non un corpo, non una dimensione vibrazionale, l’Io è una lettura/interpretazione di sé, una istantanea del momento e sempre si porta dietro la beata inquietudine.
L’Io/identità è l’indice dello strumento che misura l’unificazione: oscilla lungo la scala e solo quando è a zero la persona è in pace e l’inquietudine si quieta.
Volete che io vi parli dell’accettazione dell’Io? No, non lo farò.
Volete che vi dica che non è un ostacolo? No, non lo farò.
L’Io è come lo spread, un indice di una condizione, di uno stato interiore o di una economia: lo specchio di una evoluzione del sentire.
Non c’è alcuna possibilità di accettare tout court la propria condizione esistenziale, lo stato corrente del proprio sentire perché ogni esperienza di ogni giorno ci porta oltre quello stato, chiede e impone di andare oltre e, quando noi non riusciamo ad andarvi, si manifesta l’impasse nella forma della sofferenza.
Se fosse possibile accettare senza remore e senza conseguenze la propria condizione, la nostra realtà interiore diverrebbe immobile: quella che noi avvertiamo come inquietudine esistenziale che a volte si colora anche delle tinte del rifiuto di sé, altro non è che la risultante della pressione della coscienza sui veicoli e sull’identità, una sorta di decodifica del processo che la coscienza ha in corso e che impatta sui suoi veicoli e diviene una certa lettura/interpretazione ad opera dell’identità, dell’immagine di noi: niente altro che il vedere in uno specchio/Io quei processi.
Certo, alla fine del cammino di conoscenza e comprensione imposto dalla coscienza, si giunge alla piena e incondizionata accettazione: non di sé, perché a quel punto parlare di un “sé” non ha alcun senso, ma di quel-che-è, espressione che allora acquista un significato preciso.
La persona di medio sentire/evoluzione non ha accesso a quella incondizionata accettazione, perché il processo di acquisizione dei dati da parte della coscienza non è terminato e quel processo produce inquietudine e un certo tasso di rifiuto di sé.
L’unico problema che esiste è nel lavorare quel rifiuto di sé affinché non divenga un intralcio insormontabile: ecco allora la necessità di una sostanziale accettazione dei propri processi che può accadere perché si è integrato e accolto il tarlo del cambiamento, dell’inadeguatezza, della necessità trasformativa.
Quella sostanziale accettazione permette di vivere senza particolare conflitto, sapendo che tutto quello che viviamo interiormente ed esteriormente ci conduce a quella unità che vediamo prendere forma dentro di noi: nel vederci cambiare ci pacifichiamo, e allora chiediamo ancora di quel sale dell’inquietudine che ci permetterà di cambiare ancora.

Credo di aver messo sufficiente materiale a disposizione per avviare una eventuale discussione.


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Roberta I.

Non mi sembra che parlare dell’ilusorietà dell’io equivalga a condannarlo. Se in noi viene suscitato un senso di condanna forse è perché dentro di noi è radicata, per condizionamento sociale e religioso, una disposizione alla condanna, verso noi stessi e verso gli altri. Vediamo fuori quello che opera dentro di noi e nell’interpretazione dei fatti ci focalizziamo su aspetti sui quali siamo sensibilizzati perdendo di vista l’insieme.
L’illusorietà dell’io è un dato di fatto, non è né un bene né un male. A seconda del livello di identificazione con l’io il “concetto” della sua illusorietà può essere fonte di angoscia oppure di stimolo a ricercare il Reale che esso nasconde, attraverso la pratica che ben conosciamo della disconnessione. Quanto rimane a livello di concetto mentale e quanto è compreso dell’illusorietà dell’io? Penso che questo faccia la differenza.

Roberto D.

Credo che essenziale sia mantenere sempre alta l’attenzione sui processi e sullo sguardo che deve essere sempre il più ampio possibile . Il dettaglio del raglio spesso può scatenare sensi di colpa o attivare il censore . Se il censore è abitualmente troppo esigente è utile essere più benevoli con sè stessi ricordando che il riverbero di un raglio è la nostra stessa identità che lo amplifica ( quando non si è capaci di disendificarsi ) e più ci si attacca più il riverbero è alto . I miei ragli nel tempo hanno raggiunto un riverbero ( sui miei parametri di disagio ) di breve durata . A volte una mezz’ora , a volte un po’ di più . In passato potevano essere giornate . Ma questo perché ( non sempre ma sempre di più ) riesco a comprendere la natura della causa del raglio . E questo mi serve per fare più attenzione la volta successiva . Prossima volta che spesso si ripresenta a breve termine Questo non posso che accettarlo . Fa parte della mia natura a volte collerica . Riconoscendola però e comprendendo quanto poco amore io esprima nei confronti di chi mi sta accanto , sono portato a essere più attento e a non inciampare nei soliti trabocchetti . Poco a poco arrivano le comprensioni e i trabocchetti cominciano a non funzionare più .

Natascia

Si fa più volte riferimento, nei commenti, alla necessità di trovare l’equilibrio tra assecondare o reprimere l’io. Non mi è molto chiara questa espressione. Mi pare che in entrambi gli atteggiamenti, ci sia una non cogliere fino in fondo l’insegnamento che l’esperienza di quel momento ti dà. Noi siamo anche identità, almeno finché avremo un corpo fisico. È un fatto! Che necessità ho di assecondarlo o reprimerlo? Cerco di comprenderne la funzione. L’identità mi aiuta a fare esperienza, a raccogliere dati. Benedico l’opportunità che mi è data, consapevole che il percorso di conoscenza e superamento dell’io, sarà tutto in salita, pieno di inciampi e di ragli. Il mio compito è imparare da essi ed è su quanto sono disposta a mettermi in discussione per far sì che giunga ad un cambiamento che dovrò misurarmi, non sull’accettazione tout court. Non credo che si tratti di dare giudizi di merito, sono stata brava o no, ma quanto siamo in grado di apprendere con quel fatto che impatta con noi. In questo modo, riesco ad accogliere il mio io, per la funzione che ha, ma è staccandomi da esso, cercando di ampliare la visuale ( salire sul monte, direbbe Robi), che cerco di trarne dati. In questa continua danza tra essere e divenire, vivo e raccolgo dati. Sto imparando, col tempo, a non crearmi aspettative, cercando di non dar spazio al giudizio. A volte l’io, con le sue mille seduzioni, mi allontana da questo processo. Quando me ne accorgo, a volte sorrido, a volte dico :” e porca! Sono ancora lì?”. E via così giorno dopo giorno.

Nadia

Nei primissimi tempi di frequentazione al Sentiero ho più volte pensato:”buffa la vita, passiamo i primi 25 anni a costruire un io-identità forte e il resto degli anni a demolire ció che abbiamo edificato”. Chiara la lettura duale, un prima e un dopo, il giusto e lo sbagliato…senza cogliere la totalità del processo: c’è trasformazione incessante e quotidiana e non demolizione e demonizzazione.
Poi leggendo mi è tornato in mente anche questo illuminante post https://www.cerchioifior.it/tu-sei-il-bene-e-sei-il-male-lodio-e-la-dolcezza/

paolo carnaroli

Ci sono espressioni sintetiche, facili da ricordare, che costituiscono dei punti di riferimento per la mente e l’aiutano nelle sue riflessioni inserite nel processo di conoscenza – consapevolezza e comprensione. Aiutano a collocare nella giusta posizione e dare la giusta importanza ai dati raccolti, anche se contraddittori. Nell’insegnamento del Sentiero due delle espressioni più importanti sono “la vita è un cammino da Ego ad Amore” e “vivere
fino in fondo e dimenticarsi di sé”. Entrambe fondate sull’equilibrio dinamico fra le istanze/ruolo dell’identità e della coscienza. Entrambe ci possono guidare nel cammino di progressivo affrancamento dai condizionamenti, sia quelli dettati dal censore interiore che dalle pulsioni identitarie.

Alessandro

‘Forse è tutta questione di equilibrio, tra quanto assecondare e quanto reprimere le istanze dell’io, in una dialettica però serena, non inibente né licenziosa.’
Questa riflessione che poni, Samu, la trovo matura ed equilibrata.
Non ho nulla da aggiungere o da chiedere sul post di cui sopra, è denso di significato, senz’altro lo rileggerò domani.

Samuele

Condivido che il tarlo lavori e dia impulso. È bene però che lavori dopo che l’io si è manifestato ed in qualche modo abbia ragliato.
Non è affatto bene il contrario, ovvero il tarlo che diventa quel “giudice interiore” spesso capace di inibire, condizionare troppo, temperare troppo.
Se dessi retta a una parte di me, se vivessi senza condizionamenti sociali (archetipi transitori), ho l’impressione che a volte sarei ad es. molto più maleducato, più aggressivo, meno controllato e tiepido.
Meno diplomatico, meno mite, meno timoroso, più menefreghista, diretto e sbrigativo.
Però più “io” metto in mezzo e più vivo una vita turpe.
Forse è tutta questione di equilibrio, tra quanto assecondare e quanto reprimere le istanze dell’io, in una dialettica però serena, non inibente né licenziosa.
Ma forse anche no, è solo questione di restare connessi alla propria coscienza ed agire da essa ispirati finché il raglio non diventa incontenibile e travalica gli argini coscienziali.
Allora io raglio, mi vedo, non mi identifico, non mi massacro troppo con i sensi di colpa, lascio andare finché magari comprendo.
E l’io sarà benedetto ma non adorato come un re.

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