Leggo con interesse altalenante le discussioni interne al Sentiero contemplativo: sembra che i destini di questo organismo dipendano dal grado di confidenza tra i suoi membri, da come essi riescono a comunicare i vissuti, a stabilire una comunicazione franca e sincera, a non aver timore di esporsi nei limiti come nelle comprensioni.
Sono considerazioni che condivido, ma che non colgono la sostanza del procedere comunitario in una via spirituale.
Non è il rapporto “orizzontale”, tra membri di una via, il catalizzatore, l’attivatore, il seme che germoglia e che fa germogliare: è il rapporto “verticale”, la connessione profonda, il risiedere in un dialogo interiore perenne, in una contemplazione senza fine del Principio che ci genera e che alimenta ogni nostro vivere.
Senza questa connessione determinante, il nostro vivere e nostro discorrere, non troverà mai soluzione, sarà un esercizio importante, ci renderà, magari, più vicini sul piano umano, ma non ci permetterà di mangiare il vero pane che sazia ogni fame.
Allora pongo questa domanda: cerchiamo il vero pane?
Oppure ci basta essere un po’ più umani, un po’ più amici, un po’ più confidenti?
Se ci basta questo, bene, allora le discussioni in atto sono sane e bastano a condurci dove ci necessita andare.
Se non ci basta, se desideriamo il vero pane, allora questo che stiamo coltivando è una condizione di base necessaria, ma non certo sufficiente.
L’umano discorre molto con la mente di sé, dell’altro, del conscio e dell’inconscio e di tutto questo nutre i suoi giorni: così è, e così sarà fino a quando una pressione interiore non lo porterà ad andare oltre questo, ad ascoltare e a rispondere ad una chiamata più complessa.
In tanti anni di attività e di insegnamento, speravo di essere stato un catalizzatore, seppur modesto, di questa chiamata, ma forse così non è stato.
Ancora insisto dicendo che non c’è via spirituale percorribile dall’umano, senza che essa sia generata ed alimentata dallo “spirito”, dal sentire, dall’Assoluto stesso.
E non c’è possibilità di perseguire e perseverare in quella via, se a quella influenza non ci si abbandona, se non la si coltiva senza fine.
Una via spirituale si fonda su una pratica: meditativa, orante, contemplante.
Pratica feriale, quotidiana, innervata in ogni respiro.
Senza questo ancoraggio, questo infinito ritorno all’Essenziale, coltiveremo l’aspetto umano di noi e delle nostre relazioni, e questo è senz’altro un bene, ma non avremo colto la sostanza del nostro procedere spirituale:
– al centro c’è la relazione con l’Assoluto,
– da essa sorge il giusto orientamento, la giusta visione, il giusto atteggiamento, la parola adatta da spendere nella relazione che a quel punto diviene celebrazione del Creato.
Si può fare a meno di questo respiro mistico e spirituale, si vive ugualmente e fruttuosamente, ma, in una via spirituale, questo riguarda le fondamenta e se non lo si coltiva, allora si mina la via stessa.
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“se desideriamo il vero pane, allora questo che stiamo coltivando è una condizione di base necessaria, ma non certo sufficiente.”
Condivido.
Come nei teoremi di matematica o geometria, condizione necessaria ma non sufficiente. Personalmente fino pochi anni fa frequentavo un gruppo basato sulla condivisione dei vissuti. Ad un certo punto la coscienza mi ha condotto non a caso o per il gusto della novità verso il Sentiero. Conosco le ricchezze ed i limiti di un percorso di fraternità orizzontale. Senza cibarsi di quel pane i percorsi hanno respiro corto ma vanno benissimo finché uno non è pronto.
D’altra parte non mi appartiene neppure una via spirituale che non contempli il cenobio accanto all’ eremo.
Si, grazie Ale, avevo visto il pdf riassuntivo anche se non l’ho letto (avevo letto un po’ i singoli contributi). Visto che la questione è sepolta, non credo che ci tornerò su perché non ci caverei un ragno da un buco. Questioni troppo complicate e rarefatte per me. Mi viene da dire, senza offendere nessuno (perché il problema evidentemente è del sottoscritto che ha una mente poco sofisticata e sostanzialmente semplice), che forse sarebbe meglio entrare in relazione con una quercia, con la sua stabilità e possenza, piuttosto che perdersi in simili ragionamenti. Per me usare una chat o usarne un’altra è la stessa cosa. Sono sempre io.
Probabilmente non ho capito nulla della questione e quindi mi scuso. Non voglio assolutamente sminuire quella che evidentemente per te e per altri è un’esigenza.
Spero di non essere frainteso.
Ti abbraccio
I termini della questione Marco sono nati da una considerazione di Maria in questo Lunedì del Sentiero passato poi a Via del Monaco con Nadia e confluita quindi in questo post.
E ho sollevato questa riflessione ora chiusa e sepolta con la quale mettevo in evidenza che una chat in questo modo potesse svuotare di contenuti sostanziali l’altra.
Se ti interessa Robi ha fatto anche un Pdf.
Non capisco i termini della questione. Da tutti però colgo qua e là degli stimoli.
Quindi grazie
Mi sembrava importante apportare un contributo su questo aspetto che per me è chiarito.
Alessandro come ho scritto ieri, faccio fatica a usare questo mezzo per discussioni articolate. Capisco quello che dici ma rimango convinta che l’humus da cui è nato il limite va protetto, Si può esporre un problema e fare una domanda utile a tutti anche senza eviscerarsi. Questo va fatto con una persona che si sceglie e che può aiutarci per esperienza vissuta, per empatia, per conoscenze delle dinamiche psichiche. Se l’organismo è poco reattivo, sempre a mio modo di vedere, non è perchè non espone sè davanti all’organismo ma è perchè ancora compie i primi importanti passi sul cammino spirituale, l’organismo nel suo insieme è ancora giovane. La confidenza feriale che stiamo creando è di aiuto per farci conoscere in una situazione non “strutturata”, ma considero preziosi i nostri incontri di crescita spirituale, se così si può dire, perchè non siamo noi a cresce; nel divenire è la coscienza che ci conduce alle comprensioni. Grata per il tuo interessamento e quello di Sandra, mi inchino al contributo che avete sempre portato all’organismo e vi saluto caramente.
Correzione, scusate ma quel ‘chi se ne frega’ non rispetta una mia sensibilità.
Sono vicino da un punto di vista umano a quei dettagli che per la persona che espone sono così importanti.
Quello che intendo dire con ‘chi se ne frega’ è relativo al poco importante una volta che chi espone ha inquadrato il problema.
Chiedo a Catia.
Ha senso parlare di esposizione dei limiti senza partire dal proprio vissuto personale?
E questo non significa essere forzati a esporre le proprie cose intime.
Se tu dici Io ho un deficit di fiducia, punto. Come faccio a capire a cosa ti riferisci, qual è il contesto, quell’humus dove è nata questa considerazione, questo limite?
Mi sembra di cogliere nella tua riflessione come di eccessiva intima esposizione forzata dall’esterno.
Non è così.
Più l’esposizione del limite è circostanziata e dettagliata e più è di aiuto a chi espone la domanda perché in quei dettagli c’è già insito un lavoro di elaborazione che è metà dell’opera.
Chi se ne frega di quei dettagli, dopo tanti anni vedi che alla fine son sempre gli stessi.. niente di nuovo.
E non si tratta di dividere ancora una volta per rispondere a Nadia tra Via Interiore o Via Spirituale.
Se non parti da un vissuto che genera la domanda, io direi da una esperienza è più preciso, diventa tutto astratto e si può parlare quanto si vuole ma si rimane schiantati a terra.
L’aereo rimane sulla pista.
E ribadisco, il lavoro è il nostro, come noi viviamo il nostro quotidiano, quanto introiettiamo quella connessione con l’essenziale, quella libertà e quello spazio morbido senza pareti che ci fa assaggiare, pregustare, quel ritorno a casa.
Scusate, arrivo tardissimo alla discussione aperta in chat e la cui risposta esauriente Roberto ha posto nel sito, per due motivi:
– non sono stata bene;
– non amo discutere in chat, il mezzo meccanico blocca ogni pensiero tant’è che questa risposta l’ho scritta prima in brutta. Non posso fare una sveltezza.
Rispetto alle questioni poste mi vien da dire questo.
– Il significato da dare alla parole “scantinato”.
Se con questa intendiamo i vissuti intimi, quelli che nel tempo ci hanno formato e strutturato, non è quello che, a mio avviso, va fatto in un percorso spirituale, altre sono le sedi.
I vissuti vanno protetti. Nei nostri incontri, siano essi gli Intensivi o la VdM o Approfondimenti ciascuno di noi, nel suo intimo, sa ciò che può essere detto e lo dice quando si sente pronto. Altrimenti si sceglie di parlarne col buon amico, con l’anziano o con qualunque altro si senta più affine a noi.
Se con “scantinato” intendiamo mettere sul piatto della condivisione anche i nostri limiti, credo che stiamo imparando a farlo, ciascuno con i propri tempi. Chi ha più esperienza o è più estroverso fa da apripista e mette a disposizione il compreso e il non compreso.
– Riguardo all’autenticità delle relazioni mi vien da dire che, siccome non siamo a contatto quotidianamente come succede in famiglia o sul lavoro, è ovvio che le nostre relazioni, nelle occasioni di incontro, siano improntate all’accoglienza, alla pazienza, alla fiducia reciproca.
Non vedo dove sta il problema. Non nascondiamo niente ma ci relazioniamo rispetto al contesto.
-Se abbiamo patito limiti di confidenza, la responsabilità è nostra, di tutto l’organismo perché i tempi di incontro sono difficili da incastrare e gli incontri personali sporadici.
Prima che Roberto suggerisse le cene di lavoro, per creare tra di noi una conoscenza feriale, a nessun altro era venuto in mente. Ora che siamo partiti, vediamo che hanno la loro funzione.
– Termino con questa considerazione: penso sinceramente che con le cene di lavoro abbiamo fatto un passo importante per conoscerci in modo più feriale ma prima di queste non è che, personalmente, sentissi meno ciascun componente l’organismo comunitario: la comunione di sentire avviene se ci sentiamo in relazione con l’Assoluto, dove tutti siamo Uno.
Ogni volta che ci riuniamo per connetterci nel sentire sento un moto di gratitudine per tutti voi che ci siete e vi spendete per il cammino che stiamo condividendo. Allo stesso modo lo sento quando ci incontriamo in altro modo. Vi riconosco compagni e fratelli nel cammino.
Ritorniamo alla differenza tra via interiore e via spirituale…stamattina stavo ruminando circa il fatto che forse alcuni vogliono e forse altri sentono di custodire la propria luce interiore. In questo accudimento continuo, come il respiro, siamo nella più completa solitudine. Solo dopo questo, si apre lo spazio per l’accoglienza, per l’altro e in base a ciò che riusciamo ad accogliere , scorgiamo anche i nostri limiti e riusciamo ad accettare quel che è.
‘Il lavoro che c’è da fare è a casa.’
Scusate qui sul cell non trovo l’opzione per rieditare il testo.
La qualità della domanda determina l’andamento orizzontale o verticale dell’incontro.
La domanda è frutto del nostro impegno nel quotidiano nel rimanere quando e quanto ci è possibile connessi con la Fonte Preziosa.
Come? Non lo ripeto, ci è già stato detto tante volte.
Come noi viviamo il quotidiano si riflette poi sulla qualità dei nostri incontri.
Il lavoro che c’è da fare è casa.
Come arriviamo all’Eremo è fondamentale anzi è già tardi perché ci saremmo dovuti preparare un mese prima appena usciti dall’ultimo incontro.
Poi perché non succede o meglio succede si ma a piccolissimi passi questo non lo so e non saprei cosa suggerire.
Se l’incontro non avesse una direzione verticale non ci sarebbero stati i miei interventi come penso neanche quelli degli altri e neanche di quelli che hanno letto senza magari aver nulla da dire ma che hanno seguito.
È proprio per il fatto che c’è questa possibilità così preziosa e rara che siamo stati qui a parlarne.
“è una condizione di base necessaria, ma non certo sufficiente.” proprio qui Robi dai la risposta.
Percepisco (erroneamente magari) come una divisione, l’umano e lo spirituale, quello che a me è tanto mancato, e so che ciò parla di me, è stato l’umano che porta allo spirito, la condivisione amica che mentre avviene già è trascesa lasciando dietro solo il senso di unione, attraversare il divenire con voi, e vedere che porta all’infinito, magari fare anche una pratica impegnativa (ad es cantare un mantra in italiano) per un’ora intera che impegna la mente e la volontà e fa emergere vibrazioni profonde che uniscono perché nell’impegno, nella fatica condivisa, si crea tanta vicinanza penso anche di coscienza, è circo? Non credo.
Soffrivo a volte le tante scalette, tempi scanditi, minuti contati, specchio, forse, di una sorta di fatica a lasciarsi andare a lasciare che le cose accadessero con più spontaneità perché non sempre è sinonimo di confusione, magari poteva accadere un’armonia profonda, un tempo perfetto scandito dal momento presente…
A Sandra.
Ribadisco: a mio modo di vedere, la persona deve affondare le radici nella relazione intima con l’Assoluto.
Tutto il resto è utile, a questo prepara, a questo segue.
In merito ai modi della vita dell’organismo, una cosa sono i momenti codificati di formazione e ritualità, che mi rimane difficile capire come possano essere superati coinvolgendo essi molte persone e lasciandoli ad una indefinita spontaneità, un’altra cosa sono i momenti della relazione che è sempre stato vostro compito sviluppare, e che ora, con le “cene”, mi sembra abbiano trovato una modalità.
Difficile tenere assieme 20 persone senza una scaletta: ogni persona ha una sua esigenza, una sua priorità, suoi tempi..
E comunque, ahimè, il problema è sempre quello: il deficit, a mio parere, è nella relazione personale con l’Assoluto che si cerca di compensare con la creazione di “stati” attraverso l’azione collettiva di gruppo. Una compensazione, appunto.
Personalmente non ho parlato di circo, non ne vedo alcuno: vedo obbiezioni e considerazioni legittime, tentativi ed onestà indubbie; vedo anche che, almeno con me, pochi parlano.
Mondi complessi, e ragioni complesse rimangono taciuti ed insepressi: non parlo degli “scantinati” che tanto vi interessano, parlo delle trame della via spirituale. Amen.
Per mia fortuna, niente di tutto questo più mi compete.