Sulla disciplina del leggere e sulla gratuità del monaco

So quante poche forze rimangano dopo una giornata di lavoro, soprattutto in estate.
So anche quanto duro sia alzarsi prima il mattino e rinunciare a un po’ di sonno.
E so che, ad alcuni, riesce questo sacrificio, ma debbono possedere un motivo valido per affrontarlo.

Ho sempre consigliato di anticipare l’alzata del mattino per dedicarsi alla pratica della meditazione: questo consiglio rimane valido, ma oggi voglio aggiungerne un altro, anch’esso più volte ripetuto, quello del leggere contenuti di tipo spirituale.

Sono molti anni che scrivo, spesso delle stesse cose. Sono due anni che curo il sito del Cerchio Ifior, i cui contenuti, inevitabilmente, vanno ripetendosi e, spesso, complicandosi.
Perché consigliare alle persone di perdere mezz’ora, o un’ora di sonno, per una pratica, quella della meditazione, che sembra non produrre che torrenti di pensieri e di noia, e, addirittura, per dedicarsi alla lettura di contenuti conosciuti e ripetitivi?

Perché il monaco recita più volte al giorno le sue preghiere, i suoi salmi, i suoi mantra?
È un autolesionista? Non sa come occupare il tempo?

Cosa posso ricavare dalla lettura quotidiana di qualcosa che già conosco?

Prima considerazione: ciò che ne ricavo
Se leggo i giornali, il mio intelletto ne viene nutrito, come pure, spesso, la mia emotività.
Se leggo un contenuto spirituale, accade qualcosa di più: l’insieme del mio essere viene nutrito, in particolare il mio sentire che si trova a risuonare con il sentire che ha prodotto quel contenuto.
Quella risonanza tra sentire nutre l’insieme del mio essere, e ciascuno dei corpi che lo costituiscono.
Lettura dopo lettura, giorno dopo giorno costruisco una abitudine ed una attitudine, un luogo interiore, un centro di consapevolezza, di conoscenza e di irradiazione che assorbe ed emana, e che senza sosta sostiene il mio sperimentare umano e feriale.

Seconda considerazione: l’esercizio della gratuità
Ma, quando leggo contenuti già conosciuti, è solo noia!
Si, c’è l’esperienza della noia e del non interesse, o dell’interesse perduto che porta con sé anche una supponenza.
L’identità si annoia, cerca cibo fresco, appagante, e trova polpette riscaldate.
La supponenza del conoscere, dell’avere già compreso avvelena il pozzo spirituale: guardi la realtà, la sperimenti e senti che non può darti più niente, l’hai già spremuta, già sperimentata, già sentita.
Emerite fesserie. Ogni ricercatore sa che sono fesserie, ma commette ugualmente l’errore, perché?
Per supponenza, per orgoglio, e chissà per quali altre ragioni.
Il monaco, che non è un ricercatore, sa che il tesoro è nel loto, nel fiore che cresce nel fango.
Al monaco non interessa il nuovo, interessa il reale.

Il reale è ciò che si presenta, non ciò che egli desidera, che la sua identità vuole e cerca.
Dunque al monaco non interessa la varietà del reale, ma la sua profondità: egli aguzza la sguardo e osserva il dettaglio, la sfumatura di ciò che il reale produce nell’intimo suo.
Al monaco non interessa la quantità del reale a lui esterno, la quantità degli stimoli; gli interessa come i suoi corpi, la sua identità e il suo sentire reagiscono agli stimoli e come, di fronte ad uno stesso stimolo, egli sperimenta reazioni, consapevolezze e comprensioni sempre diverse e sempre più profonde.

La via del monaco è la via del dettaglio, del particolare, della sfumatura; via nemica della quantità e della ridondanza, amica del poco e del semplice.

Cosa trae il monaco da questa dedizione all’essenziale?
L’esperienza del vivere senza scopo, l’esperienza della gratuità.
Non è il guadagno lo scopo del monaco, come non lo è la perdita: egli contempla il reale che basta a se stesso e non desidera, nella sua comprensione mistica, né aggiungervi qualcosa, né trarvi qualcosa.
Ecco allora che la pratica mattutina è pratica di gratuità, e così la pratica di tutte le ore del giorno e della vita:
non per nutrirsi
non per cambiare
non per donare,
solo per lasciare che la vita viva se stessa attraverso la piccolezza e l’irrilevanza di noi.
Da qual lasciare che la “vita viva se stessa attraverso la nostra piccolezza”, possono sorgere molti processi, molte irradiazioni, ma questo, che può piacere al ricercatore, non interessa al monaco.

Tutto è cominciato con una piccola pratica, con un’ora rubata al sonno, ed è divenuto, nel tempo, un costume, un’attitudine che ha aperto la porta alla natura intima del vivere e del Reale.


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Nadia

Grazie

Catia Belacchi

Stampato

Alberto C.

“un luogo interiore” – “lasciare che la vita viva se stessa”. Mi risuona molto questo. Tutto qui. Letto. Grazie.

Alberto C.

“un luogo interiore” – “lasciare che la vita viva se stessa”. Mi risuona molto questo. Tutto qui. Letto. Grazie.

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