Quando non basta più a se stessa.
Quando non è più il centro di un microcosmo.
Quando sente che vasto è tutto ciò che è altro da lei,
vasto e apparentemente inconoscibile,
e ne è attratta.
Quella attrazione che non si può trascurare, né tacitare, è la “chiamata“.
Ho già detto in una serie di post precedenti, come la via dell’Essere e quella del divenire, in realtà, siano un’unica e inscindibile via.
Nel procedere umano, molte sono le situazioni in cui dal profondo del proprio essere sorge un “Grazie”, un senso di pienezza, di senso.
Quando siamo coinvolti nei processi, identificati, quei momenti sono rapidamente assorbiti e scompaiono dietro al fare, come il paesaggio dal finestrino di un treno in corsa.
Viene però una stagione in cui, per comprensione raggiunta, su quelle esperienze interiori abbiamo la necessità di soffermarci: esse svelano un mondo nascosto, che pian piano è cresciuto in noi fino al punto di non poter più essere trascurato.
Il nostro interiore ci chiama, ci attrae, come un magnete lo fa con un oggetto di metallo.
Questa attrazione non operava in precedenza?
Certo che operava, ma noi non avevamo organi di senso sufficientemente sviluppati per percepirla.
Oppure, eravamo troppo identificati con i processi identitari ed esteriori, con il fare, ad esempio, per poterla percepire.
Mi colpisce il vedere alcuni fratelli e sorelle nel cammino così incerti ancora su questo terreno: si muovono incerti in un ambiente che conoscono poco, guardano le esperienze di meditazione e di preghiera altrui e, non di rado, alcuni, solo alcuni per fortuna, commentano: non è un modo che mi dica qualcosa, sebbene lo rispetti.
Vorrei chiarire questo: i modi del meditare e del pregare sono i più vari e ogni persona è invitata a trovare il suo modo, a volte passando per l’adesione ad una forma data, altre lasciandosi condurre dal proprio sentire verso una forma originale e personale.
Chi ha sperimentato in sé la natura più profonda del frutto del meditare e del pregare, sa di cosa parlo, e sa riconoscere quell’esperienza intima e irripetibile di relazione nell’Unità nello sperimentare degli altri, nelle forme e nelle pratiche che gli altri coltivano.
Di fronte alla preghiera cristiana, come alla meditazione buddhista, come alla pratica dello Yoga, come alle altre mille forme, sento ciò che il meditante, l’orante vive: avendo io interiorizzato quell’esperienza, essa ha imprintato ciascuno dei miei corpi e il mio sentire; di fronte alla pratica dell’altro, vibro come fosse la mia pratica.
Questa è la comunione dei sentire.
Difficilmente, se non in rare occasioni, potrei dire: non è un modo che mi dica qualcosa, sebbene lo rispetti.
Questa espressione può sorgere sulla bocca di chi non ha interiorizzato a fondo, ancora, la relazione con l’Essere.
Mi addolora constatare l’opposizione, o l’estraneità, di alcuni, in realtà pochissimi, fratelli e sorelle alla liturgia che condividiamo con i monaci di Fonte Avellana: quella opposizione, o estraneità, parla delle loro menti, di un diaframma che va penetrato attraverso la conoscenza, la comprensione e la luce della compassione che sorgono dal contatto con la radice dell’Essere in sé.
La meditazione e la preghiera appartengono alla natura prima dell’umano: non che l’umano nel suo archetipo mediti e preghi, ma egli, nell’archetipo, è indissolubilmente Uno, e quella unità si realizza e trasmette come nota diffusa e incessante attraverso i suoi corpi e nell’ambiente, si manifesta nell’intenzione e nell’agire come pratica meditativa, o orante, continua e ininterrotta.
Dunque la questione non riguarda ciò che siamo nella natura autentica, ma ciò che ci vela, quello a cui aderiamo permettendogli di oscurare l’Uno che assume la forma nostra.
Molte volte abbiamo ripetuto il concetto: è la nostra adesione all’identità, non l’identità stessa, che ci separa da ciò che siamo, ed è l’affrancamento da quella adesione che ci libera.
L’Unità è già noi, ed è già operante: l’intero cammino umano non volge ad altro che a far divenire consapevole ciò che già E’ .
Il primo e più importante passo da fare, è quello di non credere all’identità che contrappone la via del conoscere e dell’imparare, alla via dell’Essere: è la menzogna più grande, quella che ci incatena alla ruota delle nascite e delle morti, e ci precipita nel dolore e nella fatica.
Mentre conosciamo, ci diviene evidente la nostra umanità come la nostra divinità: andando più a fondo nella nostra natura apparentemente limitata, come nella radice divina che ci costituisce, procediamo indivisi con le due gambe che appartengono allo stesso corpo.
La sintesi nel sentire sarà che non esiste alcun limite, che noi, come tutto il Creato, siamo Ciò-che-è, benedizione, come è benedetto un temporale nel deserto.
La “chiamata” non è il fatto di un giorno, è quell’attrazione magnetica che ci riconduce al nostro centro di gravità interiore, là dove il seme e la sua polpa non sono percepiti come due, ma come indissolubile unità.
Durante il mio pellegrinare tra gli ambienti piu disparati ho incontrato molte volte esseri che praticavano le tecniche piu disparate legate a culture o religioni apparentemente non conciliabili tra loro, ma di fondo, l’inpulso primo, riconoscibile, che attiva il processo e’ sempre quello.
Altrettanto spesso ho visto esseri ripetere meccanicamente gesti o frasi che chiamavano meditazione o preghiera senza nessun tipo di connessione con questo impulso primo.
Ovvimente anche la ripetizione meccanica offre l’opportunita’ di connettersi, di cominciare a percepire la fonte di questo impulso ma ritengo che questi esseri siano ben lontani da una interpretazione della chiamata per quello che e’.
Letto!
Letto!
C’e molto da meditare. Cosi e’
Essere e divenire, identità e coscienza….il riconoscere in noi l’unità porta al sentire unitario più allargato.
Mentre ci conosciamo ci diviene evidente la nostra umanità come la nostra divinità. incominciò a prenderne atto!
Sento la verità del post tuttavia oggi vedo tutta la mia fragilità e mi sembra di dimenticare di affidarmi e mi chiedo cosa in effetti abbia appreso.
Credo di essere sul pezzo.
Non nascondo che queste settimane di tour de force lavorativo in cui è chiesto tanto a mente ed emozioni, spesso non ho le energie per la meditazione o così me la racconto.
Grande risonanza anche quando affermi che non è l’identità il problema bensì l’adesione ad essa. Essa stessa è una benedizione, è espressione della coscienza, suo strumento e sua manifestazione. Ma chi opera l’adesione all’identità? Sono “io” e quel “io” lì credo sia la radice, quella porzione di coscienza a cui abbiamo accesso.
Grazie.
A Samuele
STO SCRIVENDO UN POST DI APPROFONDIMENTO CHE PUBBLICO ALLE 16,30
Tu dici che l’adesione alla identità è generata dalla identità stessa: condivido, ed è un adesione che sorge dalla necessità dell’identità di sentirsi d’esistere e da quella della mente di catalogare, dividere, qualificare e quantificare.
Quella identità non può che essere figlia della coscienza, perché l’essere umano è unitario e non frammentatile.
D’altra parte, di per sé, l’identità non è un dato reale, è una percezione-interpretazione, dunque su di essa si può lavorare cambiandone i termini dell’operare, del percepire- interpretare.
Se l’umano legge, interpreta e vive tutto in sequenza, dove un dato dipende da un altro, può provare ad entrare nell’ottica del Ciò-che-è, del fatto non collegato ad altri fatti; provando a rompere la catena della sequenzialità, si possono ottenere buoni risultati sul fronte dell’allentamento della morsa dell’identità, delle illusioni-interpretazioni che essa crea.
è la nostra adesione all’identità, non l’identità stessa, che ci separa da ciò che siamo, ed è l’affrancamento da quella adesione che ci libera.
Ho trovato luce in questa frase. Molto spesso osservando gli altri noto identità scatenate oltre ogni limite decente. Eppure al tempo stesso percepisco in loro il Bene. E non capivo questo, mi lasciava stupita. Con la frase di stamattina ho compreso. È l’ADESIONE il vero punto. Chi aderisce cieco può apparirmi becero ma non per questo cogliendone la sua essenza, la sua Unità, non lo posso riconoscere Uno con me e inchinarmi. Di nuovo i due piani sono contestuali. (È qualcosa che sento chiaro, ma non so se sono stata chiara)
“Dunque la questione non riguarda ciò che siamo nella natura autentica, ma ciò che ci vela, quello a cui aderiamo permettendogli di oscurare l’Uno che assume la forma nostra.”
Lo svelamento è processo lungo, la volontà vacilla con la conseguenza che la pratica è altalenante, ma il richiamo di fondo persiste.
Quella chiamata è continua, a volte sussurra, a volte si fa sentire con più forza. Quando mi lascio distrarre dai bagliori della superficie, essa manda segnali evidenti che mi riconducono all’essenziale. Certo, occorre saper riconoscere quei segnali; può essere semplicemente un boccone che va di traverso o un oggetto che cade, una reazione inaspettata da una persona intima o una svista durante la guida potenzialmente pericolosa. In quei momenti, l’importanza di coltivare un’atteggiamento meditante in ogni momento della giornata, quindi anche al di fuori dello spazio dedicato alla pratica, si fa più evidente. Quel tempo dedicato alla meditazione e alla preghiera predispone e favorisce quella disposizione, ma da solo non basta più, chiede di essere dilatato. Il ricorso alla volontà diventa indispensabile. Ci vuole volontà per preparare il terreno, e la volontà viene attivata proprio da quel richiamo.
“Chi ha sperimentato in sé la natura più profonda del frutto del meditare e del pregare, sa di cosa parlo, e sa riconoscere quell’esperienza intima e irripetibile di relazione nell’Unità nello sperimentare degli altri, nelle forme e nelle pratiche che gli altri coltivano.”
Esperienza unitaria nell’orante, unità che si manifesta in diverse esperienze oranti
La pratica meditativa in risposta alla chiamata interiore ha preso una nuova forma in me negli ultimi tempi.
Mi sembra di vivere con maggiore presenza lo stare, lo sgombero della mente, se passo attraverso la sintonia con il corpo che si risuona al respiro, al suono.
Percepisco un processo di unificazione che permette di tacitare con maggiore efficacia la spinta identitaria con le onde emotive e il turbinio della mente connesso. Direi che la pratica meditativa, la preghiera, sono archetipicamente parte dell’umano e non solo, ma ciascuno di noi deve comunque trovare quelle piccole declinazioni, cesellature, che le rendano più aderenti al nostro sentire.
Tanta sostanza!
Da riflettere.
Letto
Una certa attrazione non ancora ben conosciuta l’ho provata intorno ai 20 anni e così nebulosa e poco chiara è rimasta fino all’incontro con il Sentiero. Quello che mi tiene ancora ai margini di una pratica meditativa continua è certamente una comprensione non ancora completa e dai processi identitari che per ora padroneggiano perchè lascio a loro questa possibilità. Comprendo che solo con una volontà, una determinazione più pressante nel praticare una meditazione, riuscirò a camminare linearmente come tu dici, con una gamba nell’essere e un nel divenire.
C’è da ruminare…
Quella attrazione di cui parli, da qualche tempo, non mi è sconosciuta. Si affaccia timidamente come necessità. Tuttavia, ancora, a questo corrisponde una pratica meditativa altalenante, soggetta alla disponibilità di spazi e di tempi. Questo mi dice che l’intenzione della coscienza viene distorta dai corpi transitori, dai loro condizionamenti e limiti. Serve la volontà che si dà una disciplina
Amen.