Questo rispondo a Samuele nel post: Quando una persona inizia a meditare e a pregare? La “chiamata”
Tu dici che l’adesione alla identità è generata dalla identità stessa: condivido, ed è un adesione che sorge dalla necessità dell’identità di sentirsi d’esistere e da quella della mente di catalogare, dividere, qualificare e quantificare.
Quella identità non può che essere figlia della coscienza, perché l’essere umano è unitario e non frammentatile.
D’altra parte, di per sé, l’identità non è un dato reale, è una percezione-interpretazione, dunque su di essa si può lavorare cambiandone i termini dell’operare, del percepire- interpretare.
Se l’umano legge, interpreta e vive tutto in sequenza, dove un dato dipende da un altro, può provare ad entrare nell’ottica del Ciò-che-è, del fatto non collegato ad altri fatti; provando a rompere la catena della sequenzialità, si possono ottenere buoni risultati sul fronte dell’allentamento della morsa dell’identità, delle illusioni-interpretazioni che essa crea.
L’identità esiste nel divenire, non nell’Essere, è il frutto della sequenzialità, del tempo che altro non è che l’illusione che un fotogramma unito ad un altro fotogramma generino un processo reale.
Postulato non vero: in sé non esiste alcun tempo reale, esiste solo l’illusione dello scorrere e dei suoi tempi relativi, illusori quanto lo scorrere.
La Realtà non scorre, È.
Se noi siamo identificati con lo scorrere, tutto scorre e ogni fotogramma ha un’origine ed una fine: ma se iniziamo a dubitare questa sequenzialità?
Se la nostra vita comincia a focalizzarsi sui singoli fotogrammi, sulle singole scene, senza indagarne l’origine e il futuro?
La persona identificata corre ogni giorno di più e i suoi fotogrammi scorrono sempre più veloci.
Il meditante ed il contemplativo vedono rallentare il loro film, e non di rado stanno nel semplice fotogramma.
È il tema del vivere il presente che qui viene analizzato con un altro respiro: il Ciò-che-è, il fatto, non è un segmento del divenire, di un processo, è tutto-ciò-che-è.
Non c’è altro, non il prima, non il dopo, e non c’è giudizio su ciò che accade, ma semplice presa d’atto, neutralità.
È naturale che non vi sia aspettativa, non essendoci un dopo, e che non vi sia colpa, non essendoci un prima.
Questa è la sostanza della pratica meditativa: rompere la catena del divenire; ogni anello è un fatto a se stante, non uno che riunisce il prima con il dopo: l’interesse non è per il processo, ma per il fatto.
L’interesse non è per il processo, ma per il fatto.
Una disposizione di questo tipo rompe l’operare consueto di una identità, lo frantuma perché gli toglie il pane dell’aspettativa e della colpa, lasciandogli il piccolo accadere.
Vivere in questa disposizione, allenarsi ad essa con la pratica della meditazione e della preghiera, significa lavorare attivamente sulla percezione-interpretazione della mente: si crea una interferenza che rompe il programma dominante, lo sabota.
Alla pratica dell’imparare, dell’essere limitati e del migliorare, dello sperare, sostituiamo la pratica del risiedere, dell’osservare, dell’ascoltare, del contemplare i fatti, separandoli accuratamente uno dall’altro.
Questo produrrà, nel tempo, una disaggregazione del software di base, quello fondato sul duale: abbiamo immesso il virus dell’Essere.
Siccome l’Essere è la nostra condizione primigenia, credete che ci perderemo, che faremo danni irreparabili?
Se il software di base si blocca, non funzionerà più niente? Oppure, finalmente, cominceremo a vedere il volto del Programmatore?
Parlo di questo non a dei novellini, ai quali non parlerei mai così, parlo alle persone del Sentiero che non si scandalizzano più e sanno da che verso prendere queste parole, e che uso farne.
Il mio invito pressante alla meditazione e alla preghiera, ha il fine di portarvi, attraverso una pratica invece che una filosofia, nel mezzo dell’esperienza dei fatti, dello stare in essi, del risiedere, del contemplare, appoggiando, sempre, saldamente, sulla lucida consapevolezza delle sensazioni.
Là dove la mente vacilla e l’identità si fa instabile perché non può controllare, le sensazioni sono la base d’appoggio che non vacilla: la consapevolezza del fatto vissuto innanzitutto come sensazione, è la più grande porta per l’Essere e per l’Assoluto.
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Lentamente sto uscendo da un perido di incombenze sul piano pratico di una intesita’ che raramente ho vissuto prima.
L’essere pressato da scadenze apparentemente non procrastinabili costringe a creare catene di pensieri e di immagini ed a pianificare nel dettaglio le energie e le risorse disponibili.
La stanchezza a tutti i livelli accentua il processo e fa tendere a scivolare nel livello identitario connesso alla consequenzialita’ che puo proiettarsi pressoche all’infinito.
Uno dei pochi strumenti validi che riesco ad applicare in questo frangente che soglio chiamare ”mare in burrasca” o ”tritacarne” e’ quello di restringere il fuoco sull’azione che sto svolgendo in quel momento, sui dettagli, frammentando una situazione complessa in una serie di gesti, appunto, scollegati uno dall’altro: il ritorno alle sensazioni o al respiro e’ di solito una conseguenza.
Di rado riesco a mantenere questo stato per piu di qualche minuto, perche’ in questo contesto, gli stimoli accadono ad un ritmo folle, una telefonata, una persona, una questione di un collega, rompono questo stato e costringono a cercare di ricrearlo sulla nuova scena.
E’ comunque sufficiente per riposizionarsi e spezzare il ritmo: stando nella metafora della burrasca, e’ un po come vedere un faro in lontanaza o uno squarcio azzurro nel cielo … sei sempre sballottato dalle onde ma sai che non c’e’ solo quello, sai che il mare sa essere calmo perche’ ci hai gia navigato e ne conosci il sapore e la prossima onda sara’ solo un onda.
Riletto. È uno scrigno. Fondante.
Letto. Grazie
Letto. Grazie
Stare sul piccolo accadere come se fosse il primo e l’ultimo, l’ incessante ritorno alla radice attraverso il respiro, le sensazioni, il suono.
Letto e riletto
“Non c’è altro, non il prima, non il dopo, e non c’è giudizio su ciò che accade, ma semplice presa d’atto, neutralità.
È naturale che non vi sia aspettativa, non essendoci un dopo, e che non vi sia colpa, non essendoci un prima”
“Questa è la sostanza della pratica meditativa: rompere la catena del divenire; ogni anello è un fatto a se stante, non uno che riunisce il prima con il dopo: l’interesse non è per il processo, ma per il fatto.”
Da tenere a mente!
In un momento di stanchezza mentale a volte mi è difficile anche seguire i fatti nella loro sequenza. Il ritorno alle sensazioni è fondamentale per non perdermi.
I alcune frangenti della mia vita, ho vissuto un senso di estraneità nei confronti dei fatti che mi accadevano. Potevano essere una fuga o forse mi viene da credere che proprio quel senso di estraneità, mi abbia spinto a cercare altro e ad aderire al Sentiero. Certo c’è un bisogno di dare risposta alle mie domande, trovare un senso. Ma nonostante che abbia trovato tante risposte, credo sia importante coltivare il dubbio. Questo perché mi rendo conto che potrei essere tentata di cercare solo una consolazione. La Realtà, credo, è molto di più.
Credo di avere sufficientemente esperienza di quello che viene affermato nel post, tuttavia per me, non sono le sensazioni la base d’appoggio che non vacilla ,ma il ritorno al respiro e un mantra.
“Là dove la mente vacilla e l’identità si fa instabile perché non può controllare, le sensazioni sono la base d’appoggio che non vacilla: la consapevolezza del fatto vissuto innanzitutto come sensazione, è la più grande porta per l’Essere e per l’Assoluto”.
Ripeto l’affermazione che maggiormente impatta oggi, la definirei la sostanza del vivere anche se sicuramente manca ancora la totale comprensione di ciò
Letto, grazie.
Il mio invito pressante alla meditazione e alla preghiera, ha il fine di portarvi, attraverso una pratica invece che una filosofia, nel mezzo dell’esperienza dei fatti, ..
Questo passaggio del post, molto chiaro e molto utile per tutti, è fondamentale.
Innanzitutto grazie.
Per quanto sia piccola cosa in confronto alla portata di questo post, vorrei fare una precisazione sul mio post da cui hai qui preso spunto.
Quando dicevo che è lo “io” che opera l’adesione all’identità volevo capire se quel tipo di “io” lì, inteso come centro decisionale, come base di partenza dell’intenzione, sia già un passo più in là dell’identità ovvero sia già un “io coscienziale” , la porzione di coscienza disponibile. Come dire: quando opero la scelta a cosa aderire o cosa disconnettere, posso ritenere di farlo a livello di coscienza, di radice del sé? Penserei di sì.
Grazie ancora.
A Samuele
In effetti, chi decide? Direi che questa è la prova provata che non è possibile nessuna separazione io/coscienza netta.
È invece vero, come tu affermi, che sia l’io che la coscienza evolvono e che le decisioni che affondano nel sentire comunque attraversano l’io, trovando una opposizione, una distorsione, o una agevolazione a seconda delle situazioni e del grado evolutivo, nonché della capacità di disconnettere.
il fatto vissuto come sensazione e l’identità che ride di se, che non si prende sul serio, che non ha in mano il guinzaglio per portarci a spasso. Buona notte. Letto…come verbo leggere e letto come sostantivo
Grande è lo stimolo per una meditazione quotidiana. Grazie.
Letto,
Letto!
Letto!
Per pra: letto
Per pra: letto
Scrivi: “… L’identità non è un dato reale, è una percezione-interpretazione…”
A volte l’ho sicuramente perpepito, di fatto non costantemente. Grazie.
“Là dove la mente vacilla e l’identità si fa instabile perché non può controllare, le sensazioni sono la base d’appoggio che non vacilla: la consapevolezza del fatto vissuto innanzitutto come sensazione, è la più grande porta per l’Essere e per l’Assoluto”.
Amen