Scrive Samuele: “Stamattina a zazen vedevo la mente sfarfugliare, le emozioni che la seguivano, il fisico che manifestava sonno. Mi dicevo: non è un problema, è normale; l’importante è accorgersi, tornare a zero con le sensazioni.
Si è fatta quindi strada un’idea, un semilavorato di idea: noi siamo dove poniamo l’attenzione. In un certo senso noi siamo l’attenzione.”
“L’importante è accorgersi, tornare a zero“: si, questo è centrale, però bisogna discernere attentamente il processo.
L’identità dice: “Sei in zazen e pensi, hai sonno: non è un granché”
Sempre l’identità risponde: “Non è un problema, è normale, l’importante è che mi accorgo e che torno a zero”.
Questa è la dinamica, che però ha sottotraccia – tanto più sottotraccia quanto la mente è sofisticata – un sostanziale giudizio: pensare non è appropriato nello zazen.
Invece pensare è quel-che-è.
Aver sonno è quel-che-è.
La mente/identità arriva ad accettare la neutralità di quel-che-è solo dopo un processo: prima giudica, poi si ricorda l’interpretazione più complessa e sofisticata e la addotta.
Ma prima giudica, obbedendo alla sua natura.
Le piace, non le piace quello che vive? È appropriato, non lo è? Per noi non ha importanza, essa è-quel-che-è, ed è attraversata da quel-che-è, fa il suo mestiere.
Cambierà? Forse sì, forse no: cambia tutto nella vita..
Smetterà di giudicare, di controllare? Forse, non è poi così rilevante, ha le sue meccaniche, un suo DNA, obbedisce ad un programma.
Certo, se è in balia di alcune cristallizzazioni è un problema e bisogna provvedere con gli strumenti che ciascuno possiede, magari facendosi aiutare, ma vi ricordo che le cristallizzazioni, pur alloggiando nel corpo mentale, o in quello astrale, non dipendono da essi ma da incomprensioni nel sentire che si riversano sulle dinamiche di questi corpi.
Non mi allarmo per un pensiero non ortodosso, per il desiderio di una trasgressione che viene e che va: prendo in considerazione i contenuti dei corpi transitori che si ripetono e che condizionano la mia esistenza limitandola e magari imprigionandola.
La mente che giudica fa parte di quel-che-è, come tutto il resto.
Dunque noi siamo l’attenzione, il vedere, l’osservare, l’essere presenti e consapevoli all’operare dell’identità e dei suoi corpi, dice Samuele.
Non proprio: affermare che noi siamo l’attenzione significa, di nuovo, introdurre qualcosa di speciale che non è il semplice quel-che-è.
Significa far rientrare il soggetto, uscito dalla porta, dalla finestra: è una delle tante sofisticazioni dell’identità che non vuole rimanere fuori casa.
Invece anche l’attenzione è quel-che-è e non va colorata, abbellita, resa una meta: “C’è stata tanta attenzione, bene!”
1- L’attenzione-è, non noi siamo l’attenzione.
2- L’attenzione è il frutto della attività dei corpi inferiori attraverso i quali passa il flusso di dati della coscienza: viviamo l’esperienza dell’attenzione quando i corpi sono chiari e lasciano transitare le informazioni e le richieste di dati senza intorbidirle; allora, in virtù di questa lente ben pulita, la coscienza invia e riceve dati senza ostacolo.
Quella complessità che chiamiamo con il nostro nome, vive allora l’esperienza della consapevole attenzione, e magari anche della presenza.
Nei fatti, quando l’attenzione è lucida, e l’identificazione un dettaglio residuale:
– la coscienza svolge la sua funzione attraverso i suoi corpi,
– l’identità esegue la sua con grande discrezione, registrando, parametrando e giudicando ogni accadere senza ossessione, senza eccedere, rimanendo nelle retrovie, secondaria;
– i fatti scorrono così come creati dal sentire, o marginalmente condizionati dall’identità.
Tutto questo altro non è che il grande circo del quel-che-è, la realtà-senza-identificazione, dunque la Realtà.
In questa condizione facile è sperimentare l’Unità d’Essere.
Se invece c’è identificazione, allora ogni fatto, e l’insieme del processo, vengono attribuiti ad un soggetto che afferma: “Questa è roba mia, è la mia vita di questo momento”.
Il quel-che-è non è di alcuno: è un fatto, un accadere.
Lo zazen ci insegna a guardare ai fatti, senza legare fatto a fatto, senza speculare, senza costruire prospettiva evolutiva: tutto ciò che scorre nella consapevolezza dei sensi non è di alcuno, sorge e se ne va, impermanente.
Questa disposizione, quando coltivata senza sosta nel quotidiano, ci rende equanimi di fronte ai fatti della vita, attenti osservatori, capaci di accogliere perché non avvezzi al giudizio e al rifiuto: è la condizione di chi risiede-nella-Vita, nella sua radice; impara, contempla con lo stesso atteggiamento aperto, disponibile, libero dal resistere.
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Letto
Letto
Letto, ma da rileggere.
Sorge questa considerazione: nel momento in cui siamo attenti, presenti, partecipiamo alla vita e magari l’identità si compiace, quando siamo distratti è come se stessimo vivendo fuori di noi intrappolati da processi turbativi frutto di incomprensioni. Mi pare di intuire che comunque in entrambe le situazioni, o in bilico tra le due, dobbiamo alimentare un’accoglienza di fondo di ciò che c’è in quel momento senza sprofondarci dentro.
Leggo e ringrazio, ma non riesco a commentare. Scusate.
Osservare ed osservarsi ogni momento, togliere ogni ingombro, rifinire l’identità.
Si tanta strada…..
”Anche l’esperienza unitaria viene banalizzata, nulla si salva dal tritacarne della mente: ciò che oggi è sublime, tra sei mesi è semplice esperienza e tra un anno ti chiedi perché lo fai.”
Ho lavorato parecchio in questa direzione.
Ovviamente anche questa dinamica e’ quel che e’, ma l’impatto che crea puo essere piuttosto intenso.
Senza entrare in loop filosofici, posso dire che quando questa ”funzione del software” diventa troppo impattante cerco di cortocircuitarla mettendo nel tritacarne la funzione stessa e aspettando che si divori da sola.
puo sembrare macchinoso, ma, a volte, per la mia costituzione, funziona.
È corretto dire che la pratica continua diventa alla fine un’abitudine ? Non nel senso negativo del termine , ma come nascita di una esigenza nuova . Alla fine come chi sostituendo la poltrona con l’esercizio fisico trova una gratificazione nel moto al punto da non poterne fare più a meno , il beneficio spirituale dello svolgere lo zazen ogni giorno può portare alla necessità di trovare un momento durante la giornata per svolgere questa pratica in maniera routinaria proprio per i benefici che dà . Ora tutto ciò che all’inizio è complicato e difficile da fare, col tempo diventa quasi automatico svolgerlo nel modo più fruttoso senza grande fatica . Nel momento in cui questo dovesse accadere, la pratica dello zazen non perde forse la sua funzione diventando dunque esigenza e cibo per lo spirito e non più pratica senza aspettativa ?
A Roberto
Non so se alla lunga lo zazen possa divenire un’abitudine, di certo diviene l’obbedire ad una chiamata.
Certo, in quell’obbedire l’identità si è oramai piegata e, dal suo punto di vista, possiamo dire che si è creata un’abitudine.
In sé lo zazen non è mai cibo per lo spirito, il quale non ha bisogno di essere nutrito, ma è la pratica dell’Essenziale e dell’Unitario,
ovvero del togliere consapevolmente e volontariamente i veli che separano la consapevolezza dall'”Spirito”.
In una fase matura della pratica, quando essa è divenuta ampiamente banale, l’identità non vi scorge granché di benefici: nella fase iniziale, essendoci la novità, l’identità può parlare di benefici; nella fase matura è semplicemente quel-che-è, ampiamente “mangiato” e digerito dalla mente, ridotto, come tutto, a banale di cui si fa fatica a cogliere il senso.
Anche l’esperienza unitaria viene banalizzata, nulla si salva dal tritacarne della mente: ciò che oggi è sublime, tra sei mesi è semplice esperienza e tra un anno ti chiedi perché lo fai.
Direi, dunque, che la pratica dello zazen, come qualsiasi altra pratica, rimane nell’ambito del gratuito e non del guadagno: solo col tempo, guardando a ritroso, ci si rende conto dei cambiamenti avvenuti in noi, e per allora lo sguarda sarà sufficientemente complesso da comprendere che lo zazen è stato solo uno dei fattori che lo hanno determinato.
La teoria come è già stato scritto, è chiara, per la pratica invece c è bisogno di molto esercizio ancora.
Non mi è chiara questa affermazione: quando l’attenzione è lucida e non c’è identificazione ma mente svolge la sua funzione ……giudicando ogni accadere. Non dovrebbe essere sopita invece e non giudicare proprio?
A Catia
Questo è il periodo completo:
“Nei fatti, quando l’attenzione è lucida, e l’identificazione assente:
– la coscienza svolge la sua funzione attraverso i suoi corpi,
– l’identità svolge la sua registrando, parametrando e giudicando ogni accadere,
– i fatti scorrono così come creati dal sentire, o forzati dall’identità.
Tutto questo altro non è che il grande circo del quel-che-è, la realtà-senza-identificazione, dunque la Realtà.
In questa condizione facile è sperimentare l’Unità d’Essere.”
Tutta la realtà è sempre letta e interpretata, tutta e sempre, perché comunque viene filtrata dai corpi transitori, e anche venisse filtrata dal solo sentire, anche questo è limitato e quindi sortisce una lettura parziale.
Un dolore del corpo durante zazen, viene osservato, parametrato, giudicato e poi lasciato andare: se il dolore è leggero, è facile rimanere nella non identificazione e nella neutralità; se è intenso si attiva il processo che ho detto.
Ora, il processo viene osservato come un fatto: l’identità soffre, ma io non sono l’identità, c’è semplicemente l’identità che soffre.
Nel suo soffrire, l’identità dice: fa male; più di prima; non mi piace.
Questo è ciò che la percorre e del quale viene preso atto: è un fatto, un semplice fatto, come la luce che viene dalla finestra, o un rumore dalla strada.
Ci sono situazioni in cui la mente/identità è veramente neutrale, ce ne sono altre in cui non lo è, si mette nel mezzo, colora in vario grado i fatti: non ha importanza, vedo come opera, è un fatto.
Se non c’è mente, è un fatto.
Se c’è mente, è un fatto.
Molto più facile la pratica che la teoria…
Chiaro. Grazie.
“Nei fatti, quando l’attenzione è lucida, e l’identificazione assente:
– la coscienza svolge la sua funzione attraverso i suoi corpi,
– l’identità svolge la sua registrando, parametrando e giudicando ogni accadere,
– i fatti scorrono così come creati dal sentire, o forzati dall’identità.”
Qui ho bisogno di chiarimenti:
I tre punti non accadono comunque anche quando c’è identificazione?
A Roberta
Certamente si, questa è, in linea di massima, la dinamica di ogni umano consapevole o inconsapevole, identificato o non identificato, ma ci sono sostanziali differenze di accento, e anche di processo tra i due stati.
– Se c’è identificazione in una cristallizzazione, in un pensiero, in una dinamica, quella identificazione turba il flusso dei dati e può anche fortemente distorcere le decodifiche tra corpo e corpo, o addirittura bloccare il flusso dei dati.
Dall’akasico al mentale c’è una prima decodifica, dal mentale all’astrale una seconda, dall’astrale all’azione una terza: una turbativa derivante dall’identificazione, ovvero dall’introduzione da parte dell’identità di priorità sue, crea problemi.
– Nella non identificazione, l’accento della consapevolezza è sul sentire; nella identificazione è sulla identità e le sue prerogative: questi accenti diversi determinano conseguenze rilevanti sul flusso dei dati, a meno che l’identità non sia ben allineata con il sentire.
Chiaro…occorre pratica per interiorizzare, ma il processo e’ chiaro
Dura per l’identità accettare di “evaporare”, di perdere progressivamente la centralità, di sfilacciarsi. La mente vede “quel che è” e dice: vabbè, un po’ sciapo… Il deserto per alcuni aspetti è come il processo del cambiare gusto, per altri non avere più gusto, ma forse più appropriato dire andare oltre il gusto
Chiaro, un aiuto ad osservarsi senza cadere ancora una volta nel giudizio!
Come è possibile vedere i fatti scorrere anche quando sono forzati dall identità?
Mi sembra una contraddizione: se li forza vuol dire che non li accetta e se non li accetta mi vien da dire che la mente è identificata e quindi incapace in quel momento di vederli come quel che è…
A Marco
È possibile: vedi il condizionamento della mente, l’identificazione, e lasci che avvenga.
Letto
Grazie, rileggerò ancora per interiorizzare sempre meglio.
Se anziché “interiorizzare” avessi detto “per far mio” sarei stato ancora più intrappolato.
Vivere i fatti per quel che sono, non attribuirseli e/o colorarli. Vivere quel che è, significa vivere l’unità. Tanta strada….
Tutto chiaro, capisco cosa scrivi, mi focalizzo ogni minuto (anzi ogni secondo, SEMPRE) per vivere questa consapevolezza. È un esercizio. Col tempo sorge più spontaneo.
La teoria è chiara, la pratica…confusa!