Marco 9, 2-13
2 Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo, Giovanni e li condusse soli, in disparte, sopra un alto monte. E fu trasfigurato in loro presenza; 3 le sue vesti divennero sfolgoranti, candidissime, di un tal candore che nessun lavandaio sulla terra può dare.
4 E apparve loro Elia con Mosè, i quali stavano conversando con Gesù.
5 Pietro, rivoltosi a Gesù, disse: «Rabbì, è bello stare qua; facciamo tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia».
6 Infatti non sapeva che cosa dire, perché erano stati presi da spavento.
7 Poi venne una nuvola che li coprì con la sua ombra; e dalla nuvola una voce: «Questo è il mio diletto Figlio; ascoltatelo».
8 E a un tratto, guardatisi attorno, non videro più nessuno con loro, se non Gesù solo.
9 Poi, mentre scendevano dal monte, egli ordinò loro di non raccontare a nessuno le cose che avevano viste, se non quando il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti.
Il monachesimo cristiano porta nel cuore l’evento della Trasfigurazione che celebra e ricorda il 6 agosto di ogni anno. La trasfigurazione del Cristo rappresenta il compimento dell’ideale del monaco, la sua unione in Dio.
È una lettura condivisibile, ma di molto altro parla questa pericope.
Fino al versetto 7, Marco narra dell’esperienza del discepolo che, nel vivere una profonda e radicale trasformazione interiore, si dischiude a un’altra comprensione di sé e del Reale.
È quella fase, ben nota a tutti i discepoli, in cui il maestro è il Maestro, la via è la Via, la trasformazione interiore un processo che libera straordinarie forze interiori.
Il cadere di alcuni veli che oscurano lo sguardo, il rivelarsi di aspetti della vita unitaria dichiarano realtà straordinarie: tutto diviene possibile, la vita radicalmente altra è lì, basta viverla.
Il discepolo scopre una realtà interiore e vibrazionale che lo impressiona nel profondo e gli rivela il cammino a lui possibile, quello tanto anelato e cercato.
«Rabbì, è bello stare qua; facciamo tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia».
In quella condizione di grazia e di armonia il discepolo vorrebbe permanere, lì costruire la sua tenda/casa/residenza interiore.
Sono frammenti della realtà unitaria che si palesano al discepolo, ammantate delle vesti immaginifiche proprie a ciascuna mente e generate da una condizione vibrazionale particolare, tipica di quando il sentire attraversa/allaccia i corpi transitori in modo unico e particolare, irripetibile.
È l’imprinting del discepolo, lo svelarsi del fuoco della fede/origine/natura autentica che arde da sempre e per sempre nel suo intimo, reso possibile da due fattori: la caduta di alcuni veli/identificazioni/interpretazioni, l’avvento, il maturare di qualche comprensione.
8 E a un tratto, guardatisi attorno, non videro più nessuno con loro, se non Gesù solo.
Il versetto 8 registra la fine del sogno del discepolo: non c’è più niente, le scene dell’imprinting sono solo il ricordo di un avvenimento interiore che domani potrà essere avvolto nel dubbio.
Qualcosa è accaduto nell’interiore: una dimensione d’esistere e d’essere si è mostrata concreta, reale nella sua impalpabilità, ma, ora, non c’è più niente di tutto questo.
Ecco, ora la via del monaco svela la sua natura, integra l’imprinting e si apre sull’ordinario dei giorni.
Il fuoco della fede è solo un tizzone tra le ceneri.
La certezza dell’Essere-Uno solo un ricordo, un’ingenua proiezione?
Il senso della propria solitudine è accerchiante, la complessità dell’opera che lo attende, a tratti soverchiante.
Dove troverà il monaco le risorse per affrontare l’opera della propria unificazione a cui si sente chiamato?
Nella natura e nelle pieghe di ogni frammento del suo tempo; nell’autenticità dell’intenzione che lo muove, nello spazio tra un pensiero e l’altro, nell’intervallo tra una identificazione e un’altra, tra un perdersi e un ritrovarsi, dentro al perdersi e dentro al ritrovarsi.
Egli sa, perché lo ha sperimentato nella sua personale Trasfigurazione, che è altro, e a Quello tende nel giorno e nella notte del suo esistere.
“…Sono frammenti della realtà unitaria che si palesano al discepolo, ammantate delle vesti immaginifiche proprie a ciascuna mente…”
Riconosco questa condizione, così come riconosco “la fine del sogno del discepolo”.
Mi chiedo a volte quanto in passato le aggiunte della mente abbiano amplificato il senso di apertura sull’Essere e quanto oggi la vigilanza sulla tendenza della mente ad appropriarsi di quell’esperienza possa in qualche modo inibire quell’apertura…
Nell’esprimere gratitudine, una domanda:
“Egli sa, perché lo ha sperimentato nella sua personale Trasfigurazione, che è altro…”
Che è altro o che è “anche” altro?
A Samuele
Tende l’orso a salvare la pelle…
È “altro”, non è “anche altro”.
Quell’essere altro genera la relatività dell'”anche altro”che non esisterebbe se non ci fosse quella alterità primaria e irriducibile.
Puoi vivere quella alterità perché non sei più prigioniero dell’adesione a quella riserva: “Sarò anche altro, ma intanto sono questo!”.
Ripeto: la possibilità di vivere quello che viviamo è data da quella alterità, quindi il Reale è l’alterità, ciò che viviamo è una sua conseguenza.
Quando quello che noi viviamo non ci sarà più, rimarrà l’alterità, l’unica Reale.
Detto questo, siamo qui, guardiamo al dito (siamo altro) e alla luna (altro).
È grazie a quello imprinting che il monaco può vivere la ordinarieta dei giorni poiché ha conosciuto la fede che trasforma e la vive e la cerca non più nello straordinario ma nella consuetudine dei giorni.
Molto incisiva la interpretazione simbolica di questo passo.
Questa lettura evoca la chiamata…
La vita che sento intraprendere,
Molto forte e commovente…
Nella frattura dove tutto è unito anelo risiedere
Il resto rimane in secondo piano.
Sorge gratitude…