Cos’è l’identificazione? L’adesione statica e durevole a ciò che si pensa, si prova, si agisce.
L’immobilità, l’osservazione, la neutralità che presuppone e illumina lo zazen, ci permettono di vedere questa adesione, di conoscerla e di decidere di non coltivarla, non in zazen, almeno.
Lasciando cadere l’identificazione con il reale illusorio di ogni momento, si apre la consapevolezza e la presenza del Reale senza tempo.
Il reale del momento è illusorio proprio perchè visto attraverso le lenti dell’identificazione: il Reale è tale perchè privo di quelle lenti; la scena osservata e vissuta è la stessa.
C’è una ragione per cui ai partecipanti a Via del monaco è richiesta una pratica meditativa costante e duratura: perché senza la pratica del ritorno senza fine all’Essenziale, all’Essere, al Reale, l’identificazione pian piano si insedia e pervade l’intero ambito dello sperimentare cognitivo, emozionale, affettivo, esperienziale.
La Via del monaco è la via del perseguimento dell’unità dell’Essere, ed è incompatibile con alti tassi d’identificazione.
C’è, d’altra parte, una ragione altrettanto precisa se ai membri di Officina Esistenziale è consigliata vivamente la stessa pratica meditativa: come possono introdursi alla dimensione dell’Essere se non si concedono quotidianamente momenti specifici e impietosi, ripetuti e perseverati in cui possono vedere, conoscere e disconnettere tutto l’effimero non-essere che li coinvolge, li trascina o li travolge?
Un pensiero, un’emozione, un gesto…
Semplice fatto dell’Eterno Presente e illusoria manifestazione nel momento del reale, contestualmente.
È l’identificazione il discriminante, voler trattenere nel divenire (rendere perenne) ciò che è istantaneo per natura. Illusorio nel divenire, eterno nell’Essere.
L’identificazione è come chiudere porta e finestre della stanza per trattenere la corrente che la attraversa.
Illusione.
Non stai trattenendo il vento: hai bloccato il flusso, ti sei chiuso al Reale per crearne uno farlocco ad immagine dell’identità
Zazen e la meditazione
Disconnessione e ritorno a zero sono gli elementi fondanti della pratica meditativa.gli unici che possono ostacolare l’identificazione.
Sempre piu’ riesco ad esercitarli, ri
sultato; equilibrio e stabilita’ nel vivere I quotidano
In quel semplice stare……..
Impariamo a conoscere e modellare
il nostro vivere.
Non saprei più dire da quanto tempo la pratica si è stabilizzata, ma nei periodi in cui c’è stata discontinuità ho potuto vedere la differenza tra le giornate iniziate con la meditazione e quelle in cui non mi concedevo quel tempo dedicato e questo accadeva già molti anni fa quando ancora praticavo l’esicasmo.
Quindi è per me evidente quanto affermato e cioè che “senza la pratica del ritorno senza fine all’Essenziale, all’Essere, al Reale, l’identificazione pian piano si insedia e pervade l’intero ambito dello sperimentare cognitivo, emozionale, affettivo, esperienziale.”
Durante lo zazen continuo a perdermi nei pensieri, ma costantemente ritorno a zero e anche se non sono in grado di permanere a lungo nel vuoto, quei momenti di disconnessione lavorano comunque nell’interiore, indebolendo sempre di più l’adesione alla percezione illusoria del reale.
Dopo circa un anno che pratico non e’ per niente automatica la disconnessione quando siedo in zz.
Chissa’ se lo sara’ mai. Ma questo non e’ importante.
Importante e’ quella saldezza, quella stabilita’, quell’equilibrio che senti risiedere nel quotidiano e che permette di non essere travolto dai fatti.
Ora pratico meditazione zazen con regolarità, era un obiettivo che sentivo di dover raggiungere.
La vita a un certo punto diventa per lo più stato interiore meditativo. Nel senso di un continuo ritorno a zero che convive con l’immersione (solo alcune volte identificazione) nei fatti che accadono.
Esserci pienamente e pienamente non aderire.
L’identità scalpita nell’atto di sedersi in zazen fino a rassegnarsi.
E’ parte di un sana ecologia la quotidiana pratica meditativa. Non credo che sia importante solo l’atto, ma anche il “contesto”: l’atto di volontà correlato al decidere di inserire la pratica nella propria quotidianità, l’organizzare il tempo e il luogo della pratica, ecc. Credo che si apra una una nuova dimensione di noi stessi con l’introduzione della meditazioni, che certo può avere diverse modalità.
Una volta acquisita una pratica ogni cosa ci ricade dentro: la felicità che a volte può generare, l’insoddisfazione, la sospensione della pratica stessa, il tentativo di abbandonarla. Sono tutte dinamiche interne alla pratica, che l’approfondiscono, ci rendono più consapevoli della pratica stessa e conducono ad una sua stabilizzazione ed integrazione nella nostra esistenza.
Sedersi di fronte al muro è necessità.
A volte però mentre si è lì, si avverte smania.Ho pensato potesse in parte dipendere dalla stagione estiva…
Avverto con sempre più forza come la pratica meditativa sia uno strumento molto potente per osservare le nostre identificazioni e quindi non aderirvi.
Direi che è lo strumento più sano ed efficacie.
Nella mia esperienza, anche recente, la pratica meditativa non sempre si identifica con lo zazen, specie quando i corpi sono sotto stress avverto come rifiuto ad approcciarmi con quella modalità tanto efficace quanto dura da sostenere.
Il richiamo alla disconnessione allora può prendere altre forme a me possibili, che passano attraverso il corpo, il respiro, meditazioni guidate essenziali, uso dei mantra. Il tutto comunque in un tempo dedicato, ricercato, protetto.
Credo che sia innanzitutto importante ascoltare quella spinta che chiama a vivere la pratica meditativa come parte naturale e necessaria del quotidiano, le cui declinazioni potranno modificarsi , adattarsi a ciò che sentiamo nel rispetto di noi stessi, ma non cambiarne la sostanza.
A Maria
È certamente come tu dici. Qui parlo dello zazen, ma quanto affermo vale per ogni pratica meditativa onestamente perseguita.
In questo periodo il mio zazen è discontinuo (causa vampate improvvise e copiose).
Già da un po’ però, il solo mettermi seduta nella giusta posizione, mi fa sentire a casa.
Confermo quanto afferma Mariella!
Anche la mia esperienza con lo zazen parla di trasformazione, di resa, di una resa serena.
A Samu consiglio vivamente appena può è per quanto gli sua possibile di riprendere la pratica, esercitare la disconnessione è essenziale!
Nel tempo la pratica “si fa da sé”, diventa un appuntamento quotidiano come quello con cibo.
Condivido : zazen trasforma e ti porta sempre più in una dimensione di silenzio.
Tuttavia, per me, la sperimentazione del reale senza tempo è data solo a piccoli sprazzi. Ma se deve accadere accadrà, intanto la pratica dello zazen è ciò che ti fa sentire a casa e questo è ciò che conta..
Riconosco che la disconnessione sia necessaria per chi intraprende un cammino come il nostro.
Credo, pur nella poca esperienza che ho, perché lo zz affinché lavori in profondità, ha bisogno di tempo, di aver imparato a creare degli spazi di vuoto, che mi aiutano a disconnettere dalla mia personale narrazione.
Attimi, ma tanto basta per innescare un lento e irreversibile cambiamento.
Con l’avanzare dell’età e/o del cammino, la necessità di quel ritorno a zero è più pressante, anche se gli archetipi a cui da sempre aderisco, fatico a lasciarli.
Dipende da me comprendere fino in fondo l’importanza dell’insegnamento e la pratica. e attuarla.
Riconosco ancora alcune resistenze.
Grazie del richiamo. Purtroppo questo periodo un po’ balordo per me mi vede aver ridotto la pratica che fino a poche settimane fa era costante da tempo.
L’intenzione di riprenderla non manca.
La mia esperienza meditativa è una conferma di quanto scritto nel post.
E’ così: la pratica sufficientemente costante di zazen riduce il tempo di identificazione e fa acquisire neutralità di fronte ai fatti che accadono. Progressivamente si rafforza l’ancoraggio in se’ e cambia la percezione del Tempo. Zazen trasforma.