È naturale che “maestro” e “discepolo” corrispondono a due logiche incarnative diverse, mi verrebbe da dire, rispettivamente, alla logica del dare consapevole il primo e a quella del ricevere più o meno consapevole il secondo.
Ma in entrambi è presente anche un aspetto della funzione dell’altro: nel dare del maestro si nasconde un ricevere dal discepolo e, viceversa, nelle pieghe del ricevere del discepolo c’è un dare al maestro.
Ma al di là di queste distinzioni, che possono apparire come sofismi, credo che il punto centrale sia “l’adeguatezza del contenuto e del contenitore”.
Una relazione, un’officina, hanno la loro ragion d’essere nell’essere il contenuto adeguato al contenitore.
E questa affermazione ha una ricaduta importante: perché se una relazione, od officina, si dà è perché essa è “adeguata”, perché c’è possibilità di apprendere per chi vi partecipa.
E si dà fin tanto che in essa c’è “potenzialità”: possibilità di apprendimento.
Se esistere è apprendere e tutto è officina, qualsiasi relazione-che-è, è adeguata e necessaria a qualcuno, se non lo fosse semplicemente non esisterebbe.
Da questo punto di vista una relazione che finisce, come quella tra maestro e discepolo, una officina che si chiude, hanno il significato di aver “consumato” le loro possibilità nel divenire, e per questo devono venir meno: si sono esaurite nella loro funzione esistenziale.
Questo significa che chi ha partecipato a quella officina o a quella relazione ha appreso tutto quello che poteva apprendere?
Non necessariamente. Esistono molte possibili variabili: molto spesso l’officina o la relazione si conclude perché chi partecipa, a causa delle proprie non-comprensioni, ha esaurito, logorato, “bruciato” le molte possibilità e potenzialità contenute in quella relazione, od officina.
Ossia la cecità delle non-compressioni ha portato chi partecipava alla relazione a non vedere quelle stesse potenzialità e questo ne ha determinato la fine.
Nulla d’irreparabile, la coscienza in questa esistenza, o forse nelle prossime, si reimmergerà di nuovo in quella rappresentazione: variata nella scenografia sì, ma carica delle stesse sfide da lavorare. Nel frattempo avrà accumulato nuove comprensioni “secondarie” che forse si riveleranno essenziali per apprendere ciò che precedentemente era rimasto come un residuo opaco sullo sfondo.
Ecco che se vogliamo comprendere cosa è stata un’officina, o una relazione, dobbiamo spalmarla su molte vite e su altrettante relazioni: inserirla all’interno di una più ampia visione dell’apprendere che supera la singola esistenza o rappresentazione.
Insomma: quello che sperimentiamo oggi è il frutto di un lavoro che somma in sé già parecchie esistenze, e che forse rivelerà chissà in quale vita il suo autentico significato.
Quella di maestro e di discepolo sono funzioni e stati che assumeremo o che abbiamo già assunto, senza nessun merito personale o demerito da riconoscersi: su tutto, al di là del gioco delle parti, sta il processo dell’apprendere e la nostra disponibilità a immergerci in esso senza riserve.
Questo nella logica del divenire ovviamente. Nella logica dell’Essere quanto detto assume tutt’altro significato, perché nell’Essere il divenire è pura illusione.
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Quando la frequenza del sentire cambia, capita che contenuto e contenitore nel divenire diventano inconciliabili.
Grazie Leonardo!
La vita come perenne officina