Commentando il post La vita è effimera quanto un soffio di vento [V12] chiede Luciana: Anche il dolore che tanto temiamo ci parla dell’effimero?
Le rispondo dall’ottica del Sentiero contemplativo: se la vita è sorgere e scomparire, cosa la rende durevole come tante volte è il dolore?
Se anche il Figlio dell’uomo nel momento della prova si appella al Padre perché gli venga risparmiata, cosa possiamo fare noi?
C’è prova e prova, dolore e dolore.
C’è il dolore che sorge, ad esempio, da un’ansia e da una concatenazione di pensieri che ci prestiamo ad alimentare e allora, con un po’ di allenamento e coltivando la retta visione, possiamo operare la disconnessione e lasciare che il pensiero nasca e scompaia. Di questo ho parlato innumerevoli volte.
Questo dolore può rivelarsi infine effimero: chi non ha conosciuto l’impermanenza degli stati d’ansia e simili? Adesso ti crolla il mondo, l’attimo dopo non c’è più niente.
Rompendo la concatenazione dei pensieri, il legame tra pensiero e pensiero disconnettendo, portando l’attenzione sulla pausa, lo stato emozionale si frantuma e si indebolisce la spirale pensiero-emozione che si era creata.
Il processo:
– consapevolezza del pensiero che alimenta lo stato emozionale;
– consapevolezza dell’identificazione con lo stato emozionale e con il pensiero che si è instaurata;
– disconnessione dal pensiero, e dallo stato emozionale, focalizzandosi su una sensazione e su un dato del presente qualsiasi;
– consapevolezza che di nulla si è padroni, che il controllo della vita è un’illusione;
– consapevolezza della necessità di perdere che procede all’unisono con il sorgere di una fiducia di fondo; fiducia che, prima o poi, nella disconnessione e relativa pausa, sempre sorge.
Ripetuto finché necessario.
C’è un dolore che ha un impatto più duro, più profondo, come, ad esempio, la malattia di una persona cara.
Il processo da mettere in atto è lo stesso sopra descritto, rafforzato focalizzandosi su questo o quello step che ha per sé un particolare significato.
Nell’ottica del divenire, decodificare l’insegnamento che la situazione impartisce a chi è colpito e a noi che lo assistiamo.
Nell’ottica dell’Essere, coltivare in sommo grado la presenza a ogni fatto che accade non indugiando sugli stati emozionali e sul pensiero, tranne su quello funzionale alla risoluzione delle incombenze.
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Il Sentiero contemplativo, Cerchio Ifior
Mi ricollego al discorso di Roberto sull’accudimento. Quanto sia difficile comprendere la necessità di prestarsi cura e farlo misurando le proprie energie.
Subentrano molti fattori, affettivi, morali, egoici e la necessità di far pace con i problemi irrisolti in quella relazione.
Una bella palestra da cui ancora non ho finito di trarre spunti di riflessione e apprendimento.
Oggi riflettevo sulla demenza, malattia terribile che ha colpito mio suocero al punto da doverlo portare in RSA. Ho trovato conforto in questa riflessione: chi siamo noi per definire non normale il demente, in realtà siamo noi limitati perché siamo abituati a interagire con gli altri con i soli canali cognitivi della mente, questa mente con la quale non facciamo altro che identificarci. In realtà il demente usa canali diversi per comunicare e il mondo delle sensazioni, dei colori, delle immagini esistono e funzionano. Per regole di convivenza civile abbiamo costruito archetipi transitori in base ai quali mio suocero è invalido al 100% e non autosufficiente, ma queste sono solo etichette necessarie per regolamentare la vita nel mondo del divenire. Dovremmo smettere di giudicare, di incasellare tutto, di definire normale o anormale un fenomeno. Tutto ciò che accade è nello spettro del possibile, dell’Essere e va accolto con amore….anche la demenza, disconnettendoci dagli schemi del divenire.
A Mariela
Più che condivisibile ciò che dici.
Altra cosa è la gestione pratica e quotidiana di queste persone che, pur nella piena accettazione della loro manifestazione soggettiva, è altamente problematica per quasi tutti noi…
A mariela
In merito alla tua riflessione: “chi siamo noi per definire non normale il demente” va considerato un altro aspetto.
Il “demente” può comparire nella nostra vita per espletare un karma che ci riguarda: quindi la scena sarebbe esclusivamente nostra e non ha rilevanza se quella persona è ancora connessa con la coscienza, o non lo è più.
Cioè, un altro lato della questione, dopo esserci interrogati su chi sia costui, è: indipendentemente da ciò che tu vivi e senti, e magari non senti più niente e sei solo un guscio alla deriva, rimane la questione del mio occuparmi di te, della mia inadeguatezza, fatica, paura nel caricarmi sulle spalle quel peso.
Qui la persona deve ponderare molto attentamente le proprie forze: proporsi di accudire, ma salvare anche se stessa. Equilibri e discernimenti non facili.
Vorrei agganciarmi alla risposta di Catia per entrare nel discorso legato al dolore fisico.
Sto attraversando un periodo caratterizzato, appunto, da piccoli e grandi acciacchi sul piano fisico.
Nei momenti piu difficoltosi cerco di portare l’attenzione su di un punto, un livello, dove il dolore fisico e’ presente solo come uno dei tanti dati che provengo dal piano delle sensazioni.
Da un punto di vista pratico questo non allevia la percezione del dolore stesso ma disgrega in maniera rapida l’identificazione con l’io dolorante, si stempra il soggetto che soffre e si affaccia la percezione del dolore per quel che e’, senza giudizi o preconcetti.
Buona parte di questo processo e’ sostenuta dall’allenamento derivato dal coltivare lo sguardo simultaneo del piano dell’essere e quello del divenire discusso in un post precedente.
Sul piano dell’essere quel dolore e’ uno dei tanti dati disponibili, sul piano del divenire e’, fra le altre cose, una indicazione su quello che non e’ compreso, un cartello stradale che indica la via da percorre per trovare il punto di origine di una mancanza di allineamento.
Quando manca questa simultaneita’ di sguardo e il vortice del divenire risucchia tutta l’attenzione, l’io si perde in un ginepraio senza apparante via d’uscita, ma anche l’eccesso di orientamento verso la visione legata all’essere crea squilibrio, tendendo a sminuire i segnali che arrivano dal piano fisico.
Come spesso ho potuto verificare il cercare di tenere in equilibrio le due prospettive e danzare da una all’altra e’ un processo fondamentale per mantenere un sufficiente livello di allineamento.
Come in ogni danza si sposta il peso del corpo creando squilibrio per poi correggerlo con un altro movimento che tende a riportare in asse ma a sua volta crea un nuovo squilibrio, il processo nel suo complesso dovrebbe portare ad una armonia del movimento ed alla scomparsa del soggetto che danza.
” coltivare in sommo grado la presenza a ogni fatto che accade non indugiando sugli stati emozionali e sul pensiero, ” sto mettendo in pratica questo suggerimento, a volte si ripresenta il timore di non comprendere il significato del dolore; o di perdere ciò che ormai non è più: “l’architettura rovina a terra, cade, e sorge la necessità di piegarsi all forza dell’effimero.”
Allo stesso tempo inizio appena a percepire la “consapevolezza della necessità di perdere che procede all’unisono con il sorgere di una fiducia di fondo; fiducia che, prima o poi, nella disconnessione e relativa pausa, sempre sorge” anche se la mente non si arrende e istilla i dubbi
Sono di poche parole, capisco di non essere molto propositiva e ringrazio per poter ascoltarvi .
Riconosco nelle esperienze di dolore vissute fino ad ora, la parte dell’identità ferita che ha visto cadere pezzi della propria immagine o anche, la pretesa di poter controllare e indirizzare la vita.
In ascolto.
Vivo il dolore come una porta che dalla resistenza all’effimero mi riporta alla consapevolezza dell’Essere, un po’ come un sintomo su cui porre attenzione per uscire dall’identificazione.
Si tende a fuggire il dolore, a rifiutarlo. Eppure abbandonarsi ad esso nel senso di ascoltare le sensazioni fisiche provocate dal dolore emotivo, ad esempio la sensazione di un pugno nello stomaco, o della testa che scoppia, può scaraventare fuori dall’arrovellio mentale in pochi secondi.
Per questo direi che il dolore che nasce dalla paura dell’impermanenza, dalla paura di perdere, è proprio lo strumento che può riportarci al senso dell’eterno, in quello spazio interiore dove nulla si perde, nulla si guadagna.
A Luciana
Rispondo qui alla domanda che poni in V11.
È importante la consapevolezza, ma di cosa?
Della paura che ti morde, della sua origine, della sua componente cognitiva ed emozionale.
Ma se devi disconnettere, dove appoggi la consapevolezza dopo il primo step sopra indicato?
Per disconnettere devi appoggiare l’attenzione su qualcosa che non sia il contenuto dell’identificazione.
Ecco la necessità di focalizzarsi sui dati che sorgono dai sensi: le sensazioni del respiro, del camminare, del caldo o freddo delle mani…
Questo intendo per porta dei sensi.
Direi che i due tipi di dolore hanno specificità diverse. Quello psicologico, che si manifesta con ansia o altro, ci induce a guardare noi stessi e ad attuare i meccanismi della disconnessione. Il dolore fisico, quando è personale ci stimola alla pazienza, allo stare nel qui ed ora e ad incontrare il principio della impermanenza.
Quando il dolore riguarda un familiare
oltre a mettere in pratica gli step per disconnettere, impariamo la cura, la dedizione, fino alla compassione.
Succede che in quella concatenazione di pensieri, difficile a volte da interrompe, la consapevolezza agisce e poco alla volta permette lo spezzarsi di quella catena.
L’essere consapevoli è il trampolino di lancio: verso ciò allenamento senza fine, ricerca sempre più minuziosa
Rompere la concatenazione dei pensieri, riuscire in questo è davvero difficile. Costruire strumenti di aiuto per gestire l’ansia è esercizio di valore. Ne comprendo la difficoltà, perché ne soffro, il pensiero ossessivo e l’identificazione con quel pensiero che da’ solo dolore.
Il dolore e la disconnessione
Mi verrebbe da dire che il dolore più che “parlare” dell’effimero ci “costringe” a riconoscerlo.
L’effimero bussa nelle nostre vite in diversi modi, ora più dolci ora più ruvidi, fino a diventare insopportabili. È quella “insopportabilità” del dolore, quello che ci fa gridare “io non ce la faccio”, che distrugge il muro dell’ordine che la mente/identificazione ha edificato e dietro al quale la nostra identità si sente al sicuro, protetta.
Poi arriva l’effimero/dolore non-decodificabile dalla mente, non incasellabile nell’architettura edificata dall’identità; ecco che, allora, l’architettura rovina a terra, cade, e sorge la necessità di piegarsi all forza dell’effimero.