[Via del monaco 4] Il monaco non è una monade. La scelta di aderire alla chiamata* dell’archetipo del monaco lo rende consapevole di una duplice condizione:
– della propria solitudine esistenziale;
– della condivisione del sentire.
*La “chiamata” è una immagine letteraria, non un dato del reale, non c’è alcun archetipo che chiama: c’è invece un sentire acquisito che permette di ascoltare la vibrazione di quell’archetipo.
Solitudine esistenziale
Nell’intimo mio, nella relazione con me – ai molti livelli in cui questa mi è accessibile, da quello identitario a quello del sentire – trovo la chiamata e la risposta.
L’archetipo non chiama in gruppo, chiama me. Non risponde un gruppo, rispondo io (qualsiasi cosa si intenda con questo “io”).
È una responsabilità mia che mi assumo, rispondendo: so che ci saranno giorni di sole e giorni di grandine, so che non debbo smarrire la strada.
Per quanto io proceda insieme a fratelli e sorelle nel cammino, le mille piccole decisioni spettano tutte a me: io mi allontano o mi avvicino all’archetipo che mi costituisce, che mi indica la strada.
Gli altri aiutano, ma la decisione è solo mia.
In questo sono esistenzialmente solo: non posso appellarmi all’altrui responsabilità, essa compete solo a me.
Condivisione del sentire
Così come sono solo di fronte all’archetipo del monaco, così sono in comunione con tutti coloro che vibrano con lo stesso archetipo.
Ancora una volta simultaneità, il paradosso della solitudine e della condivisione/comunione che convivono.
È chiaro che ogni monaco ha il suo sentire, ma è anche chiaro che la chiamata dell’archetipo la si avverte da un dato grado di sentire in poi, e, giunti a quel grado di sentire, le barriere dell’io sono cadute, la comunione è un fatto, un’esperienza.
Prima di fare, coltivare l’Essere
Prima di pensare di fare qualcosa con gli altri, debbo affrontare l’esperienza dell’Essere insieme agli altri.
L’umano pensa che la relazione con l’altro sia fondamentalmente basata sul fare, invece è fondata sulla condivisione dell’Essere, almeno in questo ambito di cui stiamo trattando.
Un procedere insieme è fondato innanzitutto sulla condivisione della pratica meditativa: è la pratica che realizza l’Essere: in sé, con l’altro da sé.
Coloro che aderiscono all’archetipo del monaco, che rispondono a quella vibrazione/chiamata, sperimentano l’Essere innanzitutto nella meditazione: questa li unifica, questa li costituisce comunità con gli altri.
In una fase avanzata del cammino personale, la condizione d’Essere diviene disponibile a prescindere dalla pratica meditativa, ma ciò non toglie che essa sia un cemento ineguagliabile nel procedere di una comunità.
Bisogna aver chiaro che una comunità non si costruisce, si rivela: tutti, e con tutti gli esseri siamo comunità; questo, a un certo punto del sentire, diviene una evidenza.
Il fare eventuale sorge dalla plasmatura che la pratica opera in noi: giorno dopo giorno la meditazione ci rende nuovi, liberi, presenti, reali, uniti al creato in ogni sua forma.
Impastati di questa unità incontriamo l’altro, i fatti, i processi.
La Via del monaco è il completamento del Sentiero contemplativo, il suo approdo; è anche il percorso di un gruppo di persone che si incontrano periodicamente all’Eremo dal silenzio e, a ogni stagione, al monastero camaldolese di Fonte Avellana.
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Il Sentiero contemplativo, Cerchio Ifior
Ho chiara consapevolezza di quanto sia importante Essere insieme agli altri, prima di fare con gli altri.
Sento da tanto tempo la vocazione a Essere e contemporaneamente fare con gli altri, condividendo la vita, nella convivenza quotidiana, coniugando solitudine e condivisione.
Ho fatto esperienza nei miei tentativi di fare con altri (tentativi di costruire vita comunitaria) e ripetutamente sono dovuta tornare a coltivare l’essere, perché mi rendevo conto di non essere pronta a condividere la vita.
Una comunità non si costruisce, si rivela. Ora è più che mai chiaro.
Come dice bene Leonardo, la pratica meditativa ci mette di fronte alla solitudine esistenziale. Allo stesso tempo diventa il mezzo che disintossica dall’ingombro di sé e che permette quindi l’ emergere di ciò che è altro da sé.
Sento questo un nodo che sto dipanando, un nodo fondamentale capace di trasformare quel fare in cui sono immersa e a cui sta portando un significato nuovo.
Direi che la pratica, che è rapporto diretto con L’Essere, è alla base sia della propria solitudine, sia della comunione con l’altro.
La radice è comune.
La solitudine esistenziale e il senso di comunione con l’altro, coesistono.
Mentre faccio scendere queste parole nel profondo di me, scaturisce una commozione.
Anche se la mente fatica a comprendere, sento che la comprensione avviene a livelli più profondi. Mi lascio guidare e pur nel dubbio che la comprensione sia reale, sento che è molto più vera di qualsiasi elucubrazioni mentale.