Charlotte Joko Beck, ZEN QUOTIDIANO
[…] Ci sono psicoterapie che vogliono trasformare un sé infelice in un sé felice. Lo Zen, come forse altre discipline e psicoterapie, ci aiuta a passare dall’infelicità del sé al non sé, che è gioia.
Avere un ‘sé’ significa essere egocentrici ed essere egocentrici, contrapponendosi quindi alle cose esterne, genera ansia e preoccupazione per se stessi. […]
Anche se non abbiamo alcuna familiarità con l’opposto del sé (il non sé), provate a immaginare come potrebbe essere la vita del non sé.
Il non sé non comporta la nostra scomparsa dal pianeta, non vuol dire non esistere. Significa non essere né egocentrici né eterocentrici, ma centrati. La vita del non sé non è centrata su una cosa in particolare ma su tutte le cose (è il non attaccamento), così che le modalità del sé non appaiono più.
Non siamo più ansiosi e preoccupati, non rizziamo il pelo, non reagiamo negativamente e, ciò che più importa, la nostra vita non è più improntata alla confusione. Per questo il non sé è gioia. Non basta, perché il non sé, non opponendosi a niente, è benefico a tutto.
[…] Il primo passo consiste nel passare da una relativa infelicità a una relativa felicità. Perché?
Perché una persona infelice (turbata da se stessa, dagli altri, dalle situazioni) non ha alcuna possibilità di vivere la vita del non sé.
[…] Perché una vita fondata sul sé si frappone alla soluzione definitiva?
Perché si fonda su un presupposto erroneo, l’ipotesi che ci fa pensare di essere un sé. Tutti ne siamo convinti, nessuno escluso.
Qualunque pratica che si fermi al tentativo di migliorare il sé è, in definitiva, insoddisfacente.
Realizzare la nostra vera natura, il non sé, il Buddha, è il frutto dello zazen e della via costituita dalla pratica. La cosa essenziale, perché l’unica realmente soddisfacente, è seguire la via.
[…] Quali sono i passi da percorrere?
1- Il primo, come ho già detto, è passare da una relativa infelicità a una relativa felicità. Nel migliore dei casi si tratta di un risultato malcerto, facilmente sovvertibile. Resta che, per impegnarci in una pratica seria, dobbiamo muovere da un certo grado di relativa felicità e stabilità.
2- […] Iniziamo a vedere i nostri schemi; a prendere consapevolezza dei nostri desideri, bisogni e impulsi; a capire che schemi, desideri e dipendenze sono ciò che definiamo il sé.
Approfondendo la pratica, e iniziando a comprendere la vacuità e l’impermanenza di questi schemi, scopriamo la possibilità di abbandonarli.
Non occorre che ci sforziamo per lasciarli: avvizziscono lentamente da soli. La luce della consapevolezza, illuminando le cose, attenua le falsità ed evidenzia le verità, e nulla la rende più intensa di uno zazen intelligente, sia la seduta quotidiana o le sesshin.
Con l’appassire degli schemi il non sé, che è sempre in atto, inizia a rivelarsi, inducendo parallelamente la crescita della pace e della gioia.
[…] La chiave della comprensione risolutrice è la pratica del non attaccamento, lo sviluppo del non sé.
In ultimo capiremo che non c’è alcun sentiero, alcuna via, alcuna soluzione; infatti, dall’inizio la nostra natura è il sentiero, proprio qui e proprio ora.
Poiché non esiste sentiero, la nostra pratica segue interminabilmente questo non sentiero, senza aspettarsi ricompense. Il non sé è tutto e, come tale, non ha bisogno di ricompense: è, dal senza inizio, perfetta realizzazione.
Charlotte Joko Beck, ZEN QUOTIDIANO, Amore e lavoro, Ubaldini, Roma.
La prefazione al libro e la presentazione di Charlotte.
Qui puoi scaricare il libro (non so come academia.edu e l’autore del caricamento risolvano il problema del copyright).
In questo post e nei successivi sono riportati solo alcuni brani del volume.
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Il Sentiero contemplativo, Cerchio Ifior
“Pratica di non attaccamento” .
Credo che la pratica dello zz, lavori nel profondo, indipendentemente dalla nostra disposizione.
Mi ritrovo nel percorso delineato dall’autrice. Grazie.