Da: Ildefonso Falcones, La regina scalza, Longanesi, pgg. 268-269
Farla cantare era stato più difficile. «Non mi riesce», protestava Milagros.
Erano tutt’e tre sedute per terra, in cerchio, sotto un pino; il tramonto permeava di tristezza campi e boschi.«Insegnaglielo», ordinò la vecchia a Caridad.
Caridad esitava.«Cosa pretendi che faccia?» la difese Milagros. «Per imparare a ballare come lei devo solo osservarla e poi ripetere le stesse mosse, ma se dico che non so cantare è perché sento quelli bravi, e più li guardo più capisco che a me proprio non riesce».
Calò il silenzio, finché María non aprì le mani in segno di resa: con il ballo era già riuscita a far distrarre la ragazza. Aveva raggiunto il suo scopo.
«Nemmeno io so cantare», osservò allora Caridad. «Il nonno dice che lo fai molto bene», la contraddisse Milagros. L’altra fece un’alzata di spalle.
«Noi neri cantiamo tutti allo stesso modo. Non so… è il nostro modo di esprimerci, di lamentarci della vita. Laggiù, nelle piantagioni, mentre lavoravamo, ci costringevano a cantare per non lasciarci il tempo di pensare».
«Canta, Morena», la pregò l’anziana dopo un’altra pausa di silenzio.
Caridad si ricordò con nostalgia di Melchor, chiuse gli occhi e cantò in lingua yoruba con voce profonda, stanca, monocorde.
Le gitane l’ascoltarono in silenzio, sempre più assorte.
«Adesso tocca a te», disse la vecchia Maria a Milagros dopo che Caridad ebbe concluso la sua nenia. «Canta, bambina», insistette, quando la ragazza si rifiutò.
Non voleva parlarle del dolore: doveva scoprirlo da sola. E le deblas, i martinetes, i lamenti dei galeotti, cos’altro erano, se non canti di dolore? Qualcuno poteva forse negare che i gitani fossero un popolo perseguitato almeno quanto quello dei neri?
Quella ragazzina non aveva già sofferto abbastanza?
«Canta con me», la incoraggiò Caridad mettendosi di fronte a lei e porgendole le mani, in cui quelle di Milagros trovarono rifugio.
Caridad ricominciò, e poco dopo anche Milagros canticchiava timidamente. Cercò sostegno negli occhietti scuri dell’amica, ma, benché la fissasse, lo sguardo di Caridad sembrava perdersi lontano, quasi fosse in grado di vedere ben oltre ciò che aveva davanti.
Sentì il contatto delle mani dell’amica: non stringevano le sue, che pure sembravano chiuse in una morsa. Era… era come se Caridad si fosse smaterializzata nella sua stessa musica, mischiata a quegli dei africani che le avevano rubato. E capì la pena che la sua voce trasmetteva.
Quando quella giornata finì, Milagros era perplessa, ma Caridad e la vecchia María erano convinte che sarebbe riuscita a riversare il dolore nel suo canto.
Ed era andata proprio così. La prima volta che Milagros aveva trasposto i propri sentimenti in una canzone, la banda di ragazzini che le seguiva era scoppiata in un applauso.
La ragazza, colta alla sprovvista, aveva taciuto.
«Canta finché la tua bocca non saprà di sangue!» l’aveva spronata la vecchia María, rimproverando con lo sguardo i mocciosi, che erano spariti svelti tra gli alberi.
Da li in poi, tutto era stato semplice.
Quelle che fino ad allora erano state solo tonadillas allegre, cantate con passione equivoca, si trasformarono in grida di dolore: per la prigionia dei suoi genitori e per l’amore verso Pedro García; per la scomparsa del nonno; per lo stupro subito da Caridad e la morte di Alejandro; per quella continua fuga, vessata dagli sputi dei payos al loro passaggio; per la fame e il freddo; per l’ingiustizia subita per mano di chi li governava; per il passato di un popolo perseguitato e per il futuro incerto.
Quella notte, nel campo vicino a Niebla, sedute intorno al fuoco l’una accanto all’altra, Caridad e la vecchia María si emozionarono di fronte alle nuove danze di Milagros, provocanti e gioiose, e alla profondità del suo canto sulla sorte avversa dei gitani.
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Grazie..
Questo racconto mi rimanda alla questione del “libero fluire”. Che cos’è il dolore se non un blocco del flusso energetico tra i corpi, un incepparsi della manifestazione di sé?
L’arte, in senso lato, ha questa profonda capacità esistenziale, ovvero quella di ristabilire l’equilibrio nella libera manifestazione di sé.
Molto toccante il racconto…
Così sono nati i canti degli schiavi americani. Col canto hanno trasformato il loro dolore in profondità di sentire e in arte.
Se il dolore esiste, non può essere per la malvagità di qualcuno, ma perché ci permetta di affinare il nostro Sentire.