Una vita libera da aspettative è una vita di pace, di gioia e di compassione. Fin tanto che ci identifichiamo con questo corpo e mente (e tutti ci identifichiamo), ricerchiamo ciò che riteniamo positivo per il corpo e la mente. Desideriamo il successo, desideriamo la salute, desideriamo l’illuminazione, desideriamo una montagna di cose.
Di recente mi hanno prestato un libro di Dōgen Zenji, intitolato Tenzo Kyōkun*, che espone doveri e modo di vita del tenzo, il capo cuoco. Secondo Dōgen, il tenzo deve essere scelto tra gli studenti più maturi e meticolosi del monastero. Se la sua pratica è meno che perfetta, l’intero monastero ne risente.
È ovvio che Dōgen, descrivendo le qualità del tenzo e le direttive per svolgere l’incarico, non parla soltanto della sua figura ma si riferisce a ogni studente zen, a ogni bodhisattva. Ciò ne fa una lettura istruttiva e pertinente.
Cosa troviamo nella descrizione della vita di un tenzo illuminato? Visioni mistiche? Stati estatici? Niente affatto. Troviamo molti paragrafi su come mondare il riso dalla polvere e la polvere dal riso. Molto dettagliato. Dōgen non tralascia nulla della conduzione della cucina: dove appendere i mestoli, in che modo esatto, e così via.
Vorrei leggervi un passo: “In seguito, non dovreste buttar via con noncuranza l’acqua che rimane dopo la pulitura del riso. Nei tempi antichi si usava un sacco di tela per filtrare l’acqua prima di gettarla. Quando avete finito di lavare il riso, mettetelo nella pentola. State particolarmente attenti che non ci cada per caso un topo. Non permettete assolutamente a chiunque capiti in cucina di frugare o guardare nella pentola”.
Che cosa vuole dirci Dōgen ? Non si riferisce certo soltanto al tenzo. Che cosa possiamo imparare?
Nello stesso libro, è riportata una storia famosa. Se la capiamo, abbiamo capito davvero la pratica dello Zen. Nella sua giovinezza, Dōgen si recò in Cina per migliorare studio e pratica. In un torrido pomeriggio di giugno, in un monastero cinese, vide il tenzo, un monaco molto anziano di nome Lu, lavorare sodo all’esterno della cucina. Metteva i funghi a seccare su un letto di paglia.
Aveva un bastone di bambù ma era senza cappello. I raggi del sole picchiavano tanto che il lastricato bruciava i piedi. Lu lavorava sodo ed era coperto di sudore. Non potei fare a meno di pensare che il lavoro era troppo faticoso per lui. La sua schiena era come un arco teso, e le sopracciglia bianche come la gru.
Mi avvicinai e gli chiesi quanti anni avesse. Mi rispose che aveva sessantotto anni. Gli domandai quindi perché non si servisse mai di assistenti. Rispose: “Gli altri non sono me”.
“Hai ragione”, dissi; “posso capire che il tuo lavoro è l’attività del buddhadharma, ma perché lavori tanto duramente con questo sole ardente?”.
Rispose: “Se non lo faccio ora, quando mai lo potrò fare?”. Non mi rimaneva altro da dire. Mentre proseguivo il cammino, cominciai a intuire il vero significato del ruolo di tenzo.
L’anziano tenzo disse: “Gli altri non sono me“. Esaminiamo questa affermazione.
Ciò che il tenzo vuol dire è: la mia vita è assoluta. Nessuno può vivere al mio posto, nessuno può sperimentarla al mio posto, nessun altro può esaurirla in mia vece. Il mio lavoro, il mio dolore, la mia gioia sono assoluti. Nessuno di voi può sentire il dolore al mio alluce, e io non posso sentire il dolore al vostro. Assolutamente impossibile. Non potete deglutire al mio posto, non potete dormire al mio posto. Qui sta il paradosso: nell’assumermi totalmente il dolore, la gioia e la responsabilità della mia vita, se vedo chiaramente questo punto, io sono libero. Non ho aspettative, non ho bisogno d’altro.
Al contrario, noi viviamo sempre nella vana aspettativa di qualcosa o di qualcuno che renderà la nostra vita più facile, più bella. Passiamo il tempo nel tentativo di concretare questo ideale, mentre la gioia sta esclusivamente nell’agire in modo totale sopportando semplicemente quel che va sopportato, facendo semplicemente ciò che dev’essere fatto. Anzi, non si tratta di un dovere: si presenta un compito e perciò lo assolviamo.
Dōgen continua parlando del sé che si dispone naturalmente nel sé. Cosa vuol dire? Che soltanto voi potete sperimentare i vostri dolori e le vostre gioie. Se qualcosa che si presenta nella nostra vita non viene sperimentato, questa omissione è una piccola morte. Nessuno vive totalmente in questo modo, ma vediamo almeno di non perdere il novanta per cento di ciò che ci succede.
“Se non lo faccio ora, quando mai lo potrò fare?“. Solo io posso occuparmi del sé dal mattino alla sera, solo io posso accogliere la vita. E di questo contatto, che avviene secondo per secondo, parla Dōgen descrivendo la giornata del tenzo. Occuparsi di questo, badare a quello.
Non solo lavare il riso ma occuparcene chicco per chicco. Non gettare via distrattamente l’acqua. Ogni boccone che prendiamo. Ogni parola che pronunciamo. Ogni incontro, ogni momento. Non cantare i sutra con la mente da un’altra parte, non lavare a metà i piatti, non fare niente a mezzo.
[…] Ripetiamo, una volta di più, che zazen, sedere, è l’illuminazione. Perché? Perché è lì, proprio mentre sediamo, attimo dopo attimo.
Il vecchio tenzo che mette a seccare i funghi: una vita intensa, dedicata a preparare cibo per gli altri.
Tutti, in realtà, stiamo preparando cibo per gli altri. Tutto è ‘cibo’: battere a macchina, studiare matematica o fisica, occuparci dei bambini.
Ma proviamo un profondo apprezzamento per il lavoro che svolgiamo?
Siamo sempre in attesa di qualcosa: “Ci dev’essere qualcosa in più di questo”.
Sempre aspettative.
*Terminata la pubblicazione di questi stralci di “Zen quotidiano” pubblicheremo l’intero Tenzo Kyōkun in una traduzione inedita giapponese-italiano.
Charlotte Joko Beck, ZEN QUOTIDIANO, Amore e lavoro, Ubaldini, Roma.
La prefazione al libro e la presentazione di Charlotte.
Qui puoi scaricare il libro (non so come academia.edu e l’autore del caricamento risolvano il problema del copyright).
In questo post e nei successivi sono riportati solo alcuni brani del volume.
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Per rimanere aggiornati su:
Il Sentiero contemplativo, Cerchio Ifior
“Noi viviamo sempre nella vana aspettativa di qualcosa o di qualcuno che renderà la nostra vita più facile, più bella”.
Questo il passaggio centrale. Ciò che si presenta a noi, qualsiasi cosa essa sia, richiede tutta la nostra attenzione perché è l’unica realtà disponibile, non se esistono altre. Solo in essa noi possiamo agire totalmente, senza riserva.
Comprendere la propria mente è comprendere i modi in cui noi tentiamo di fuggire da questa unica realtà.
Semplicemente fare ciò che deve essere fatto!
Ma per espletare e realizzare questa affermazione occorre un contatto continuo con il sentire, con la parte più profonda di noi che illumina attimo dopo attimo la manifestazione di ogni essere.
Che dire…la teoria è chiara, la pratica più complessa !
Nel turbinio del fare di questi giorni, sperimento come sia facile perdersi. Scene che interrogano.
Gli altri non sono me“.
Nessuno può vivere al mio posto, nessuno può sperimentarla al mio posto. Leggo e rileggo, mi commuove!
Un sollecito all’attenzione, solerzia e allo sguardo unitario.
Ogni cosa è cibo. Mi tornano in mente le parole che avevo scritto a mio figlio Emanuele in occasione della prima celebrazione dell’Eucaristia per cercare di rendere questa realtà più concreta, esperienzale. Avevo cercato di trasmettere come ognuno di noi è cibo per l’altro nei piccoli fatti quotidiani, come ti parlo, come ti ascolto, come preparo del cibo, come mi accorgo o non mi accorgo di te, etc, etc
Un’eucarestia incarnata nella vita.
con pazienza e disciplina provo a entrare in questa dimensione tutti i giorni, vacillando quando la pressione aumenta e le forze diminuiscono.
Mi ha colpito il fatto che il monaco Lu
Dicesse:”se non lavoro adesso sotto il sole quando potrò mai rifarlo?…
È capitata la stessa cosa a me qualche giorno fa’ metre facevo un lavoro molto duro e impegnativo…
Ho pensato ( se non lo faccio ora che ho l’opportunità magari non mi ricapiterà più..
Ho letto tempo fa l’intero testo che mi colpi molto perché allora per me i concetti erano una assoluta novità da ruminare. Mi colpì soprattutto la frase :tratta il riso come fossero i tuoi occhi “.
Di questo stralcio mi vengono queste considerazioni.
” gli altri non sono me “. Nessuno può vivere la vita al nostro posto, vero, ma non smetto di vivere la vita se scelgo di farmi aiutare a svolgere una mansione..
Insieme si cresce e la mia esperienza può aiutare un altro.
“se non lo faccio ora quando mai potrò farlo?” Doghen si preoccupa del ve cch’io tenzo c’èche lavora sotto il sole senza neanche un copricapo.
Vero, nessun compito va rimandato a dopo, se lo si può fare subito e questo per molti di noi richiede davvero molta disciplina, tuttavia perché non avere cura del proprio corpo mentre lo si svolge? Alleviare un disagio significa anche lavorare con meno fatica.
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Ogni cosa è cibo…
Grazie, un’altra pillola di saggezza da applicarsi all’istante!
Stavo riponendo il telefono dopo aver letto rimandando al pomeriggio il commento, poi ho ripensato: “se non lo faccio ora, quando? “
Proprio così.
Eppure mi ricordo quando non era possibile contare solo su di me perché sentivo a quel livello.
Disciplina e accoglienza per i tentativi di disciplina.