Da Charlotte Joko Beck, ZEN QUOTIDIANO
Suzuki Roshi ha detto che: “La rinuncia non consiste nel lasciare le cose di questo mondo, ma nell’accettare che se ne vadano“. Tutto è impermanente, prima o poi se ne va. La rinuncia è la condizione di non attaccamento, l’accettazione del fatto che le cose se ne vanno.
L’impermanenza è, di fatto, un altro nome per ‘perfezione’. Le foglie cadono, si accumulano i prodotti della decomposizione, da questi rinascono i fiori e le foglie: cose che sentiamo come piacevoli. La distruzione è necessaria. Un incendio nel bosco può essere necessario, e a volte il nostro intervento può rivelarsi controproducente. Senza distruzione non può prodursi la nuova vita, non può manifestarsi la sua meraviglia: il continuo mutamento. Dobbiamo vivere e morire. Questo processo è perfezione.
Il cambiamento non è precisamente quello che ci saremmo aspettati. Non apprezziamo la perfezione dell’universo perché il nostro impulso ci spinge a cercare un modo per durare per sempre nel nostro eterno fulgore. Benché ridicola, la nostra speranza è questa. La resistenza al cambiamento stride con la perfezione della vita, cioè la sua impermanenza. Se la vita non fosse impermanente, dove sarebbe la sua meraviglia?
Ma l’ultima cosa che vogliamo è la nostra impermanenza.
[…] Il primo e più forte ostacolo è dato dalla mancanza di consapevolezza delle resistenze che opponiamo alla pratica, resistenze che tendono a permanere fino alla morte definitiva dell’io personale. Solo un Buddha è privo di resistenze, e non credo che tra gli uomini ci siano dei Buddha. Fino alla morte abbiamo resistenze che dobbiamo portare alla coscienza.
Il secondo ostacolo è dato dalla mancanza di sincerità sul nostro stato d’animo momento per momento. È difficile ammettere: “Sto facendo il vendicativo”, “Sto facendo il punitivo”, “Sto facendo l’ipocrita”. È una sincerità scomoda.
Il terzo ostacolo è dato dal sopravvalutare e dal farci sviare da piccole aperture. Sono un frutto, privo di importanza finché non lo trasferiamo nella vita quotidiana.
Il quarto ostacolo è non comprendere la vastità del compito in cui ci siamo imbarcati. Non è un compito impossibile né inabbordabile, ma è infinito.
Il quinto ostacolo, comune tra chi passa molto tempo in un centro zen, è imparare a sostituire alle parole e alla lettura la pratica. Meno si parla della pratica, meglio è.
[…] Una pratica intelligente lavora in fondo con un’unica cosa: la paura fondamentale dell’esistenza, la paura di non essere.
È ovvio che io non sono, ma è l’ultima cosa che voglio sapere.
Io sono l’impermanenza espressa in una forma umana in rapido cambiamento, che però appare come stabile. Ho il terrore di conoscermi come un campo di energia in veloce trasformazione. Non voglio essere questo.
Ecco perché la pratica lavora con la paura, che si esprime nell’incessante attività di pensare, speculare, analizzare e fantasticare. Con questa attività vogliamo stendere uno spesso manto protettivo che ci dà una salvezza immaginaria.
Charlotte Joko Beck, ZEN QUOTIDIANO, Amore e lavoro, Ubaldini, Roma.
La prefazione al libro e la presentazione di Charlotte.
Qui puoi scaricare il libro (non so come academia.edu e l’autore del caricamento risolvano il problema del copyright).
In questo post e nei successivi sono riportati solo alcuni brani del volume.
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Il Sentiero contemplativo, Cerchio Ifior
“La resistenza al cambiamento stride con la perfezione della vita”.
Colpisce questo passaggio.
Per quanto il percorso del monaco sia individuale e spesso solitario, nello sperimentare la praticare Zz insieme, ho colto un senso di Unità.
Quello che più sconcerta la mente riguarda alla pratica? Che è un compito infinito.
La mente cerca sempre un punto d’approdo definitivo e si protrae, cercandolo. La pratica ci ricorda invece il vero statuto della divenire: tutto si trasforma, nulla è, non ci sono punti d’arrivo o su cui riposarsi troppo a lungo.
Ha volte ho paura di crescere perché penso che perderei tutto quello che sono ora….
Non è facile pensare che tutto questo che provo ora un giorno non ci sarà più ma sarà trasformato…
Non a evo mai pensato che L’impermanenza di può considerare un sinonimo di perfezione, ma in realtà è così.
Quanto al timore della nostra impermanenza è l’ultimo apprendimento. Essendo una esperienza di cui non ricordiamo, è logico che si abbia timore anche se se ne comprende la necessità.
Del resto, ogni esperienza nuova mette un certo disagio all’io.