L’illuminazione è il nucleo di tutte le religioni, ma spesso ne abbiamo un’idea falsata. Paragoniamo l’illuminazione a uno stato di perfezione, di grande tranquillità e accettazione. Non è così.
Vorrei sottoporvi una serie di domande che riguardano situazioni spiacevoli. Non dico di non tentare di prevenirle o di cambiarle, né dico che non dobbiate avere forti reazioni o forti preferenze nei loro riguardi. Ma questi esempi ci forniranno qualche barlume, che a sua volta ci consentirà di capire meglio che cosa sia la pratica. Ecco le domande:
Se mi dicessero: “Joko, domani è il tuo ultimo giorno di vita”, sarebbe perfetto? E se lo dicessero a voi, sarebbe perfetto?
Se avessi un incidente e mi dovessero amputare braccia e gambe, sarebbe perfetto? E per voi?
Se nessuno mi dovesse dire mai più una parola gentile o di incoraggiamento, sarebbe perfetto?
[…] Io non sono in grado di rispondere sì a nessuna domanda e, se siete sinceri, nemmeno voi. Invece, rispondere: “Sì, è perfetto”, equivale allo stato illuminato. Ma capiamoci bene.
‘È perfetto’ non significa che non grido, non protesto, non piango o non provo odio per la situazione. Cantare e danzare sono la voce del dharma, e anche il grido e il lamento. ‘È perfetto’ non significa avere trovato la cosa che cercavo perché mi facesse contento.
E allora? Cos’è lo stato illuminato? È la non separazione tra me e la mia vita, qualunque essa sia.
[…] Il punto è essere d’accordo con tutte le situazioni che la vita presenta. Non è cieca accettazione; non significa che, se siete malati, non vi curate. Ma, davanti a una cosa inevitabile, c’è ben poco da fare. Allora, è perfetto?
[…] una persona che non fa resistenza a nessuna situazione non segue il comportamento dell’uomo comune. Pochi, ma qualcuno vicino a questo modo di essere l’ho conosciuto.
Questo è lo stato illuminato: abbracciare qualunque situazione, bella o brutta che sia.
[…] non imparare a ‘tollerare’ le situazioni, ma imparare a non aver bisogno di nessun atteggiamento specifico al loro riguardo.
[…] Vorrei che consideraste da quale base si può rispondere a ogni situazione: “È perfetto. Non ho lagnanze da fare”.
Non significa non essere mai turbati, ma che c’è una base su cui la vita poggia e che vi fa dire “È perfetto” a tutto. La pratica (che lo sappiate o no, che lo vogliate sapere o no) è scoprire questa base, che vi farà dire in ogni circostanza: “È perfetto”. O, nella preghiera del Signore: “Sia fatta la tua volontà”.
Un modo per valutare la pratica è vedere se la vita diventa più perfetta per noi. […] Una cosa è perfetta quando accettiamo di starci assieme: accettiamo la nostra protesta, la lotta, la confusione, il fatto che le cose non vanno come vorremmo.
Significa disponibilità perché tutto ciò continui: dolore, lotta e confusione.
In un certo senso, è ciò che facciamo nelle sesshin. Sedendo, si forma lentamente la comprensione: “C’è questa cosa che non mi piace, vorrei scappare via eppure, in qualche modo, è perfetto così”.
[…] Sedendo in zazen ci apriamo la via in questo koan, in questo paradosso che sostiene la nostra vita. Comprendiamo sempre meglio che qualunque cosa accada, per quanto la odiamo, per quanto lottiamo con essa, in un certo modo è perfetta.
A meno che non fraintendiamo clamorosamente la pratica, apprezziamo sempre meglio la lotta, la fatica e il dolore, anche se continuano a non piacerci. E non dimenticate i momenti belli della sesshin, quando la gioia e la comprensione ci fanno sussultare.
[…] Si sviluppano la comprensione e l’apprezzamento della perfezione di ogni momento: del dolore alle ginocchia o alla schiena, del prurito al naso, del sudore. Cresce la capacità di dire: “Sì, è perfetto”.
Il miracolo del sedere in zazen è il miracolo dell’apprezzamento.
Charlotte Joko Beck, ZEN QUOTIDIANO, Amore e lavoro, Ubaldini, Roma.
La prefazione al libro e la presentazione di Charlotte.
Qui puoi scaricare il libro (non so come academia.edu e l’autore del caricamento risolvano il problema del copyright).
In questo post e nei successivi sono riportati solo alcuni brani del volume.
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Per rimanere aggiornati su:
Il Sentiero contemplativo, Cerchio Ifior
“Non imparare a ‘tollerare’ le situazioni, ma imparare a non aver bisogno di nessun atteggiamento specifico”.
Quante volte nel Sentiero si è espresso questo fondamentale concetto?
La comprensione per una via reale, deve passare da qui.
Lo zz è l’insostituibile strumento attraverso cui scopriamo quella base, quella roccia, in noi, sulle quale siamo saldi e ci apriamo ad accogliere le mille sfumature del divenire. Allora “ciò che piace” vale lo stesso di “ciò che si rifugge”: non c’è distinzione.
Tempo fa si, al termine illuminato attribuivo uno stato di perfezione assoluta.
Adesso come dice l’ autrice Una cosa è perfetta quando accettiamo di starci assieme: accettiamo la nostra protesta, la lotta, la confusione,
È giusta per ciò che dobbiamo comprendere.
Rispondere a qualsiasi fatto: “sì è perfetto” , equivale allo stato illuminato , dice l’autrice. Nel Sentiero diremmo: riconoscere ogni fatto come” ciò che è ” senza connotazioni.
L’illuminazione come non separazione dalla vita.
È la capacità di restare lì, a volte nella confusione, nel disorientamento, nella sofferenza, ma con quella stabilità e con quella certezza che qualsiasi cosa si presenti è “bene” per noi.
È la capacità di restare in consapevole equilibrio nel flusso della vita senza poterne essere travolti.
…mi osservo e so che può accadere!
Accettare di sedersi davanti al muro, senza senso alcuno, senza pretesa, sopportando di buon grado l’indolenzimento delle gambe, l’affaticamento della schiena.
Sapere che con le tante faccende da fare si decida di creare uno spazio di non fare, plasma la mente, fortifica la volontà e prepara all’accettazione dei fatti della vita.
Al di là di ogni elucubrazione mentale, il gesto di per sé, è più potente.
Queste letture mi stanno facendo capire meglio quello che faccio da diversi anni…