“Il silenzio è ascoltare: non l’attesa febbrile di una parola che ci colpisca o ci riempia il cuore, ma una calma ricettività verso colui che è presente e che lavora silenziosamente nel nostro intimo essere.
Per questo si dice che la nostra solitudine “è terra santa, un luogo dove, come un uomo con il suo amico, il Signore e il suo servo spesso parlano insieme; c’è l’anima fedele frequentemente unita alla Parola di Dio; c’è la sposa fatta una con il suo sposo; c’è la terra unita al cielo, il divino all’umano”.
Il silenzio, infatti, coniuga l’assenza di parole, sulle labbra e nel cuore, a un dialogo vivo con il Signore. Il frutto che porta il silenzio è noto a chi lo ha sperimentato. Dio ci ha condotti in solitudine per parlare al nostro cuore.
Questo è silenzio: lasciare che il Signore proferisca in noi una parola uguale a Lui.
Ci raggiunge, senza che sappiamo come, senza che possiamo delineare i suoi contorni precisi; tuttavia, la stessa Parola di Dio viene e risuona nel nostro cuore. Fonte
Parafrasi/commento
“Il silenzio è ascoltare”; “una calma ricettività”; “colui che lavora silenziosamente nel nostro intimo essere”.
Che cos’è il silenzio nella prospettiva del Sentiero? È il silenzio di sé, del vociferare della mente e dei sussulti delle emozioni. Non che nel Sentiero si sia apatici o che l’elemento mentale venga rigettato, semplicemente cambia il rapporto con essi.
Perché non ci si identifica più con i propri contenuti mentali o con le proprie emozioni, se ne è compresa l’inconsistenza, l’impermanenza; dunque, il nostro “riconoscimento esistenziale” si attua su altre frequenze vibratorie, più in profondità. Ciò che ci guida e ci sostanzia è il sentire di coscienza: verso quel centro siamo attratti e con esso risuoniamo.
Ecco che nel Sentiero l’esistenza guidata dal sentire si fa ascolto: “calma ricettività ”.
L’esistenza fondata sul sentire non agisce: non ha piani prestabiliti. Venuta meno l’identificazione con i propri contenuti mentali e con le proprie emozionai, viene meno anche la centralità del soggetto.
L’esistenza non è più in funzione di ciò che questo soggetto deve realizzare e se non c’è progetto da realizzare cade anche l’”ansia dell’azione” e della “performance”: non agiamo più, ma semplicemente “re-agiamo”. Ciò che ci compete non è comprendere quando e come agire, ma allenare “una calma ricettiva”, ovvero l’essere “vigili”, “disposti”, “solerti” rispetto a una chiamata che richiede il nostro intervento.
Una chiamata rispetto a “colui che lavora silenziosamente nel nostro intimo essere”. Questo “colui” altro non è che la Vita che manifesta se stessa attraverso noi.
“Silenzio”, “ascoltare”, “calma ricettività”, “colui che lavora silenziosamente nel nostro intimo essere” formano un articolato complesso esistenziale che nel Sentiero Contemplativo esprimiamo attraverso l’espressione “disposizione contemplativa”.
La disposizione contemplativa realizza l’Unità, che noi definiamo attraverso la “contemporaneità di Essere e divenire”: la capacità di tenere insieme “stare” e “fare”, di partecipare al mondo pur nella consapevolezza di non appartenere a questo mondo, ovvero senza essere identificati con il divenire e con il soggetto che del divenire ne è il centro; la capacità di contemplare la realtà accogliendo i fatti per quello che sono e d’altra parte, contemporaneamente, (re-) agire a partire dal discernimento esistenziale.
Tale contemporaneità di Essere e divenire è vivere e realizzare l’Unità, la condizione di non separatezza. Sussiste un’armonica relazione, un libero fluire, tra intenzione che nasce dalla coscienza e manifestazione nei corpi transitori: “c’è l’anima fedele frequentemente unita alla Parola di Dio; c’è la sposa fatta una con il suo sposo; c’è la terra unita al cielo, il divino all’umano ”.
E qual è il luogo in cui questa unità si realizza?
È la “cella esistenziale”, simbolo del silenzio di sé, della possibilità dell’ascolto, dell’autenticità dell’azione; è il luogo della “solitudine esistenziale”: “Dio ci ha condotti in solitudine” e nella solitudine “lasciare che il Signore proferisca in noi una parola uguale a Lui”.
Ciò che a noi spetta è il compito di non allontanarci dalla “cella esistenziale”, tenerla in ordine e pronta per accogliere la chiamata quando essa avverrà. Diventare, insomma, strumenti nelle mani della Vita e lasciare che la vita si manifesti, senza intralci, attraverso noi: “lasciare che il Signore proferisca in noi una parola uguale a Lui”.
“Dio ci ha condotti in solitudine ”; “lasciare che il Signore proferisca in noi una parola uguale a Lui”.
L’esperienza della “cella esistenziale” è anche e soprattutto l’esperienza dell’”essere condotti”. Se il soggetto viene meno insieme alla pretesa di essere il centro dell’azione, allora che cos’è vivere?
È una condizione impersonale, non attribuibile a nessun ente particolare: semplice auto-manifestazione della Vita stessa: “Dio ci ha condotti in solitudine”; “lasciare che il Signore proferisca una parola una parola uguale a Lui”.
Senza merito né demerito, in umiltà e senza la pretesa di sapere perché quella spinta si realizzi in noi e dove vada a finire, ci predisponiamo al servizio, a essere il luogo della manifestazione dell’Assoluto: “Ci raggiunge senza che sappiamo come, senza che possiamo delineare i suoi contorni precisi; tuttavia, la stessa Parola di Dio viene e risuona nel nostro cuore ”.
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Il Sentiero contemplativo, Cerchio Ifior
Sorge gratitudine!
Coltivare il silenzio permette di essere condotti, permette alla vita di automanifestarsi.
Così sorge l’atteggiamento dell’affidarsi, l’accoglienza di ciò che si presenta e l’essere
trasformati: “una matita nelle mani di Dio”
Rimanere in silenzio, creare uno spazio.
Non uno spazio vuoto, ma luogo di intimo incontro con il divino.
Una parola può risvegliare in noi lo spiritoso della chiarezza interiore e farci strada in noi stessi