“Inizia, quindi, nella consapevolezza del respiro […] quella emersione della natura di Buddha, quindi potremmo dire della natura originaria, della mia natura originaria, natura buona […] di Buddha di cui io sono possessore […]; che già mi abita.”
Questo passaggio del video (a fondo pagina) “Meditazione, consapevolezza, respiro tra Thich Nhat Hanh e vipassana” dello studioso G. Bertagni ha dato vita a un approfondimento, realizzato nella chat interna della “Via del Monaco”, che ha preso forma di un dialogo.
Tutto è relazione, la comprensione che avviene nella coscienza non è certo da meno. Tutti apprendiamo nella manifestazione e nello scambio. Questi stralci di dialogo vogliono esserne solo un esempio.
Il “topos” della discussione è nella comprensione dell’espressione “natura di Buddha”, la quale può essere tradotta nel linguaggio del Sentiero come “contemplazione del Ciò-che-è”, esperienza della natura originaria e unitaria del Reale.
Leonardo – [Il brano citato all’inizio] lascia intendere che chi vive nella consapevolezza e a essa si dedica nella propria vita non può, quasi non deve, manifestare sentimenti quali rabbia, irritabilità, aggressività. Tutti atteggiamenti disdicevoli e inopportuni per una “persona spirituale”.
Come se appunto questi stati non appartenessero alla “natura di Buddha”.
Come se esistesse solo una natura buona di Buddha (connotata e accettata sia culturalmente, sia socialmente, sia eticamente come “buona”).
In verità tutto è natura di Buddha, anche quegli stati mentali che a noi non vanno giù e non riusciamo ad accettare.
Se qualcuno inveisce contro di me, mi provoca, certo che in me si produce rabbia, aggressività: nulla di più normale; anzi sarebbe strano il contrario. Poi la consapevolezza mi porta a vederlo, evita che questo stato d’animo mi travolga, e così poi lo lascio andare e scompare. E in tutto questo processo non ho certo perduto la mia natura di Buddha, anzi l’ho esercitata.
Catia – La questione, come tu dici [Leonardo], non sta nel non provare o manifestare emozioni, ma nell’identificazione e nel tenercela stretta.
Roberto – Tema dei temi: non è forse tutto natura autentica?
Continuiamo ad associare la natura autentica alla calma e all’equanimità, e dunque a rifuggire tutto ciò che questo non è.
Non è in fondo da lasciar andare anche l’equanimità?
[…] Non potremmo dire che natura autentica è equanimità e i suoi opposti e tutto quello che è oltre tutto questo?
Dio non è buono, È.
La natura autentica non è buona, È.
Adesso siamo nel grande boh![2], luogo ostico alle menti che non possono più ragionare secondo logiche conosciute.
Indagando il grande boh!, oramai ammutoliti, percepiamo solo spazio e non condizionamento, la vasta dimensione dell’Essere che quello è, e non si ridurrà mai a concetto, perché questo non può decodificarla.
Ecco l’impasse delle menti, ecco la marginalità dell’interpretazione soggettiva e di tutto il sapere, ecco lo stare in Ciò-che-È. […]
Stare in Ciò-che-È non è stare nella calma e nell’equanimità, né in uno stato di beatitudine.
Leonardo – Mi preme la parola “stare”, perché descrive il “Ciò-che-È” non come una realtà “statica”, bensì “dinamica”. Il “Ciò-che-È” come un campo gravitazionale che possiamo percepire se relativizziamo tutti i concetti e ci connettiamo con il “sentire” a questa dimensione: il “Ciò-che-È” è “sentito”, non “pensato”.
Roberto – L’umano confonde l’esperienza di beatitudine che è reazione dei suoi corpi transitori nell’esperienza del “Ciò-che-È”, con il “Ciò-che-È” stesso.
Passata la reazione dei corpi e rimanendo solo il vasto spazio vuoto, il “Ciò-che-È” è ancora e ancora. […]
Le soggettività non accettano che, giunti ad un certo punto, non ci sia più niente da consumare: ecco perché enfatizzano le esperienze dell’Essere come beatitudine, perché quello si mangia.
Noi invece diciamo che, ad un certo punto del comprendere e dello sperimentare, l’umano non ha più i veicoli per affrontare ciò che gli si presenta e si trova di fronte ad un grande spazio al quale può solo abbandonarsi.
Siamo nella dimensione del sentire, nella dimensione dell’Essere che non diviene e possiamo solo stare.
Come dice Leo, stare non è staticità, è apertura totale all’azione e all’influenza del Senza Nome.
Lorena – Possiamo dire che il “Ciò-che-È” è Essere percepibile e sperimentabile nell’adesso?
Roberto – Si, certamente, purché non lo confondiamo con ciò che la sua sperimentazione produce come sensazioni nei corpi transitori.
[1] Link del video Meditazione, consapevolezza, respiro tra Thich Nhat Hanh e vipassana (Gianfranco Bertagni):
[2] “Il grande boh” indica l’esperienza dell’ammutolire delle menti e della loro possibilità di interpretare e “fagocitare” la realtà, esperienza ineludibile che apre le porte alla possibilità di comprendere e “sentire” il reale nei termini di “unità”. Potremmo dire che “il grande boh” corrisponde alla natura originaria di Buddha. L’espressione proviene da “Soggetto” della “Via della conoscenza”. Per approfondire la questione si consiglia la lettura del post “Una insostenibile aridità: il grande boh! [34V].
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Ad ogni lettura, una possibilità di approfondimento. Grazie
Picconate.
Thanks
Il ciò che è è tutto
Spazio sconfinato.
Utile la rilettura. Grazie.
Grazie per questo confronto