Verso la metà del quinto mese del sedicesimo anno (1223) dell’era Jiading (1208-1224)[1] ero su di una nave nel porto di Qingyuan e mentre parlavo con il capitano giapponese, giunse un anziano monaco. Aveva circa sessant’anni. Subito salì sulla nave e chiese ai giapponesi presenti dove poteva comperare dei funghi giapponesi.
Io lo invitai a prendere il tè e chiesi (quale fosse) il suo luogo di residenza: era il tenzo del monte (monastero) Ayuwang. Dice: “Sono originario di Shichuan. Da quarant’anni mi sono allontanato dal villaggio natio. Ora ho sessant’anni. Fino a ora ho girato per monasteri in varie zone.
Negli anni scorsi ho risieduto con Guyun[2]e mi sono recato a registrarmi[3] a Yuwang, trascorrendo (il tempo) in modo ambiguo. Ma l’anno scorso, alla fine del periodo estivo, sono divenuto il tenzo del tempio principale. Domani è il quinto giorno [del mese][4] e non ho nessuna prelibatezza in tutto il cibo da offrire.
Devo preparare una zuppa di tagliatelle, e ancora non ho i funghi. Per questo sono venuto appositamente per cercare di comperare dei funghi da offrire ai monaci[5] delle dieci direzioni”.
Gli chiedo: “Da quanto tempo sei venuto via da lì?” Dice: “Terminato il pranzo”. Chiedo: “E’ lunga o breve la strada da qui a Yuwang?” Risponde: “Trenta quattro, trenta cinque ri (circa venti chilometri)”. Domando: “Quando devi essere di ritorno al monastero?” Il tenzo dice: “Proprio ora, appena comperati i funghi, intendo tornare”.
Gli dico: “Oggi, inaspettatamente ci incontriamo e inoltre colloquiamo stando su questa nave, non è forse una felice connessione?[6] Io, Dōgen offro il pranzo a te, tenzo maestro zen”. Risponde: “Impossibile. Se io non preparo il pranzo offerta di domani, non sarebbe giusto”. Dico: “Nel tempio non c’è forse qualcuno dello stesso ambito che conosca (come preparare) il pranzo? Se anche il tenzo non è personalmente presente, quale mancanza sarà mai?”
Risponde “Io ricopro questo ruolo in età ormai avanzata, e dunque è la pratica della mia senilità. Come potrei mai affidarla a un altro? Inoltre, quando sono venuto (fin qui), non ho domandato (il permesso di passare) la notte fuori”.
Allora io chiedo ancora al tenzo: “Tenzo nobile d’anni, perché non pratichi la via dello zazen, e non esamini le parole più importanti degli antichi? Essere assegnato come tenzo è problematico, bisogna solo lavorare fisicamente, cosa c’è di piacevole?”
Il tenzo fa una gran risata e dice: “Gentile straniero, finora non hai acquisito il compimento della pratica della via, non hai acquisito la conoscenza dei caratteri (delle scritture)”.
Allora io, sentendolo parlare in questo modo, improvvisamente con cuore sorpreso iniziai a provare vergogna, e gli chiesi: “Che cosa sono mai i caratteri (le parole, le scritture), che cosa è mai la pratica della via?”
Il tenzo disse: “Se non incespichi e passi oltre il luogo della domanda, allora come non sarai quella persona?” Io, allora, non compresi.
Il tenzo dice: “Se ora non arrivi a comprendere, vieni in un altro momento, in futuro, al monte Yuwang. Non dovrò andare via, e discuteremo al meglio della verità dei caratteri (delle scritture)”. Finito di parlare in questo modo, si alzò da sedere dicendo: “Il giorno volge al termine, devo andare in fretta”. E partì per rientrare.
(Versione letterale dal giapponese inedita di J.Forzani. Scarica il testo con le note)
[2] Guyun [Dao?]quan, discepolo di Zhuoan Deguang (jap. Setsuan Tokkō 1121-1203) a sua volta discepolo di Dahui Zonggao (jap. Daie Sōkō – 1089-1163) rinomato maestro di scuola Linji (Rinzai). Questi ultimi due furono abati del monastero Ayuwang, ed è possibile che anche Guyun lo sia stato. (Leighton/Okumura pag.54, nota 30
[3] kata lett. appendere il bastone. Sinonimo di kashaku. Espressione che indica il mutamento di stato da monaco itinerante che porta il bastone da viaggio (shakujō) a monaco ufficialmente residente in un monastero.
[4] Nei monasteri Ch’an e Zen il primo, il 5, il 10, il 15, il 20 e il 25 di ogni mese l’abate espone ai monaci un insegnamento nella sala del dharma. E’ questa l’occasione di un pranzo speciale.
12. A metà del quinto mese del sedicesimo anno dell’era Kya Ting [1223], verso la fine della festa del Mizunoto, non ero ancora sbarcato dalla nave nel porto di Ning Bo e stavo parlando con il capitano giapponese, quando giunse un anziano monaco, sulla sessantina. Salì subito sulla nave e, rivolgendosi ai passeggeri giapponesi, chiedeva di acquistare dei funghi della loro terra.
Io lo invitai e, servendogli il té, gli chiesi dove risiedesse: era il tenzo del monastero del monte Ayuwang[1]. Disse: “Sono originario di Xi Shu. Sono passati quaranta anni da quando ho lasciato il paese natale. Quest’anno compio sessantun anni, e in passato ho vagato per i monasteri di ogni regione. L’anno scorso, dopo aver risieduto temporaneamente nel tempio Gu Yun, mi sono recato al monastero Ayuwang dove mi sono votato alla vita religiosa, ma ho trascorso il tempo in modo capriccioso. Eppure l’anno scorso, alla fine del periodo di ritiro estivo[2], sono stato nominato tenzo del tempio principale. Domani è il cinque del mese[3], e io non ho nessun cibo appetitoso da offrire. Per fare la minestra in brodo non ho ancora trovato i funghi. Allora sono venuto apposta per acquistarli, per fare un offerta ai monaci che provengono dalle dieci direzioni[4].
Gli chiesi: “Quando sei partito?”. Rispose: “Dopo pranzo.”
“Da Ayuwang a qui la strada è lunga o breve?”. “Venti chilometri.”
“A che ora intendi rientrare al monastero?”. “Appena comperati i funghi, riparto subito.”
“Oggi grazie a questo incontro fortuito abbiamo potuto conversare qui sulla nave: non è questa una circostanza fortunata? Doghen desidera offrirti qualcosa, maestro tenzo.”
“É impossibile! Sarebbe assurdo mentre non ho provveduto al pasto rituale di domani”.
“Nel monastero non c’è nessun altro che sappia preparare il pasto? Che cosa manca se il tenzo per una volta non è al suo posto?”.
“Io svolgo questo lavoro in età avanzata: è quindi la pratica della mia vecchiaia. Come potrei affidarla a un altro?” Inoltre quando sono partito per venire qui non ho chiesto licenza di pernottare fuori“.
Allora gli chiesi ancora: “Tenzo venerabile d’anni, perché invece di dedicarti alla pratica dello zazen e alla custodia dei detti capitali degli antichi sei incappato nei guai del ruolo di tenzo e ti preoccupi solo di lavoro? Che c’è di piacevole in tutto questo?”
Fece una gran risata e disse: “Caro amico straniero, tu ora non comprendi cosa sia la pratica della via, né sai cosa significhino i caratteri.”
All’udire da lui simili parole, improvvisamente si destò in me un sentimento di sorpresa vergogna, per cui gli chiesi: “Che cosa è <pratica della via>?” Che cosa intendi per <caratteri>?”
“Se non inciampi a proposito del punto essenziale della domanda, tu non sarai più come prima [confuso]“. Io allora non compresi.
Mi disse: “Se ora non capisci, in un altro tempo, fra qualche giorno, vieni al monte Ayuwang: potremo discorrere degli aspetti principali dei caratteri senza che io debba andarmene”.
Ciò detto si alzò e aggiunse: “Il sole sta per tramontare, devo partire in fretta.” E subito se ne andò per ritornare.
(Versione del volume “E. Dogen, La cucina scuola della via, EDB, 1998”)
[2] Kaigheryo – alla fine del periodo di ritiro estivo, detto anche ghe ango. Questo periodo ha origini indiane, legate alla stagione della pioggia, quando i monaci non andavano in giro da un luogo all’altro ma si fermavano in uno stesso luogo finché non passavano i monsoni. Così hanno avuto origine i monasteri: nei restanti periodo dell’anno i monaci indiani dovevano muoversi sempre e non potevano dormire più di due notti nelle stesso luogo. In Cina non vi è una vera e propria stagione delle piogge, ma la tradizione è rimasta e il periodo estivo e divenuto periodo di pratica intensiva. In molti monasteri del Giappone la tradizione è rimasta e il periodo di ango estiva va dal 19 aprile al 15 luglio.
[4] Nord, sud, est, ovest, nord-est, nord-ovest, sud-est, sud-ovest, sopra e sotto: un modo di dire ovunque. Da ovunque provengano, senza discriminazioni.
12. Per dire ancora come, pur dopo tanti anni di vita monastica, la mia comprensione fosse lontana dal vero, ricordo l’insegnamento di quell’anziano monaco che aveva fatto ben venti chilometri a piedi solo per procurarsi un po’ di funghi da offrire ai suoi confratelli nel pasto dell’indomani.
Io ero convinto che la pratica della Via consistesse nel solo fare zazen e che lo studio della Via consistesse nel semplice studio delle scritture, dei detti degli antichi, dei koan.
Non mi veniva neanche in mente che dedicare tutte le proprie energie nell’offerta dei pasti fosse pratica religiosa purissima. Il tenzo rise della mia comprensione così limitata, perché sapeva che ogni cosa diviene pratica della Via, ogni cosa diviene scrittura e studio della Via, se c’è la dedizione: non ci sono aspetti della vita che non facciano parte della Via, che non raccontino la Via, se la Via è la mia vita.
Il tenzo rise, e mi disse che se avevo quella comprensione della pratica e della comprensione delle scritture, allora non sapevo cosa era né l’una né l’altro.
Rimasi turbato e chiesi: «Ma allora, che cosa è pratica, che cosa è scrittura?».
Mi rispose: «Il punto essenziale è porsi la domanda, è il modo di porsela, è ritenere essenziale la domanda: se non fraintendi riguardo a questo, non sarai più così confuso».
Quella volta non capii, ed egli mi dette appuntamento per la prossima occasione.
(Ristesura in forma libera e commentata di Jiso Forzani: dal volume citato)
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“non ci sono aspetti della vita che non facciano parte della Via, che non raccontino la Via, se la Via è la mia vita”
…quando il quotidiano diventa preghiera
Ogni gesto, fatto con cura , dedizione, attenzione e scrupolo è l’incarnazione della Via.
Un lavoro che inizia dallo sgrossere l’evidente e continua nello smussare parti sempre più sottili e nascoste.
Non si finisce mai.
Il Tenzo dedica tutto se stesso al proprio lavoro e si preoccupa di dare ai suoi fratelli un cibo appetitoso.
Personalmente prendo questo insegnamento come qualcosa a cui tendere, sapendo che andrà affinato ogni giorno di più attraverso la relazione con l’altro che mi darà così modo di svelare il mio limiteproprio come il Tenzo con Doghen.
Questo è un tema su cui ho molto da imparare!
Dedizione, una parola meravigliosa, ogni cosa andrebbe fatta con dedizione, con amore. Dedizione è via perché quando si fanno le cose con dedizione si entra nello stato di flusso, nel qui e ora. Questo tema mi trova col nervo scoperto purtroppo, l’irrequietezza aumenta con il passare degli anni mentre la capacità di concentrazione diminuisce. La disciplina sembra un lontano ricordo, o forse non l’ho mai fatta mia completamente. Mi sento debole su questo fronte.
Nel Sentiero cerchiamo di coltivarla in sommo grado, poi chiaramente ognuno di noi fa quel che può.
Ma, come tu dici, la dedizione ti impone l’attenzione, l’ascolto, la prontezza, la costanza…
“ogni cosa diviene pratica della Via, ogni cosa diviene scrittura e studio della Via, se c’è la dedizione: non ci sono aspetti della vita che non facciano parte della Via, che non raccontino la Via, se la Via è la mia vita”
Mi colpisce profondamente , consapevolezza
frutto di comprensione , impastata nel
vivere.
Questo episodio raccontato da Doghen parla della dedizione e della cura del Tenzo per il proprio lavoro, cura e dedizione che dovrebbero accompagnarci in ogni cosa che facciamo.
Ci dice anche che non c’è differenza tra dedicarsi alle scritture e dedicarsi sulla cucina:tutto è Via.
Ci ho messo tanto a comprendere quest’ultimo aspetto dell’ insegnamento.
anche preparare i pasti per gli altri e’ pratica
perche’ si mettono a disposizione tutte le energie da quando apri gli occhi a quando li’ chiudi
“Ma allora, che cosa è pratica, che cosa è scrittura?”
La lettera senza lo spirito che la vivifica è morta.
La lettera vivificata dallo spirito traborda della scrittura e si fa “vita autentica”, “pratica ininterrotta”, si fa carne.