Connettere vi permette di dire che su un pensiero si forma un’emozione e, come conseguenza, un comportamento, facendo un aggregato di cui voi siete il centro e di cui vi sentite responsabili, perché ve ne imputate la motivazione; poi fate la stessa cosa con gli altri, per quel tanto che riuscite a capire di loro. Degli altri fate continue interpretazioni, costruzioni e proiezioni per affermare voi stessi su di loro, soprattutto quando volete rendere più stretto un rapporto.
L’uomo connette per far sì che l’azione sia riferibile a un agente e sia prodotta sulla spinta di un pensiero e di un’emozione a esso legata. Nella via evolutiva si connette perché si ritiene che sia importante agire per formare un’unitarietà nella quale ci si riconosce come un ‘io’ in cammino.
Ma quando accade che nell’uomo venga a mancare, sia pure per pochi momenti, la connessione automatica costruita nella sua mente, lui si ritrova a tratti quel pensiero, a tratti quell’emozione, a tratti quel comportamento, ciascuno dei quali non è più motivabile attraverso gli altri, e quindi lui si percepisce disconnesso. Questo gli dà la sensazione di essere sballottato da una situazione a un’altra, tutte slegate fra di loro, nell’impossibilità di ricongiungerle per renderle coerenti intorno al proprio ‘io’.
Perché l’uomo, che viene attraversato da flash di disconnessione, vive un’insolita esperienza: ora è del tutto aderente a quella sensazione, ora a quel pensiero, ora a quel comportamento.
Arriva proprio a pensare di essere quella sensazione – pausa – poi quel pensiero – pausa – poi quel comportamento, esattamente come si presentano, cioè come una successione di stati, dentro e fuori di lui, non motivabili e non riordinabili.
In quei momenti, lui si sente disarticolato e inconcludente: non capisce il motivo per cui nasca quel pensiero, o perché si presenti quell’emozione, o perché si compia quell’azione e nemmeno può utilizzare quegli stati disconnessi che non hanno nulla a che fare con la sua volontà, nulla con le sue intenzioni e men che meno con un ‘passo avanti’ verso la sua meta interiore.
Nel momento in cui riconosce la realtà di disconnessione, l’uomo non può attribuire alcuna finalità ai fatti e alle azioni, come fate tutti voi per spiegare ciò che è in termini di causa-effetto, di coerenza-incoerenza, di utilità e di progressione verso l’armonia.
Perché quando si presentano dei flash di disconnessione, che perdurano e che tendono a ripetersi, allora in lui si indebolisce l’identificazione nella sua mente e, di conseguenza, la convinzione che pensiero, emozione e azione gli appartengano e che costituiscano, uniti insieme, la sua identità.
Nel ripetersi di momenti di tale natura, l’uomo non riesce più a motivare quel che accade col principio di causa-effetto, e ancor meno a identificarsi in quello che voi tutti chiamate ‘spirito individualizzato’.
Fonte: La via della Conoscenza, “Ciò che la mente ci nasconde“, Gratuità, p. 42-43
In merito alla via della Conoscenza: quel che le voci dell’Oltre ci hanno portato non sono degli insegnamenti, non sono nuovi contenuti per le nostre menti, non sono concettualizzazioni da afferrare e utilizzare nel cammino interiore. Sono paradossi, sono provocazioni o sono fascinazioni, comunque sono negazioni dei nostri processi conoscitivi e concettuali.
Non hanno alcuno scopo: né di modificarci e né di farci evolvere. Creano semplicemente dei piccoli vuoti dentro il pieno della nostra mente. Ed è lì che la vita parla.
Per qualsiasi informazione e supporto potete scrivere ai curatori del libro: vocedellaquiete.vaiano@gmail.com
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Indice dei post estratti dal libro e pubblicati
Abbreviazioni: [P]=Prefazione. [V]=Vita. [G]=Gratuità. [A]=Amore.
Le varie facilitazioni di lettura: grassetto, citazione, divisione in brevi paragrafi sono opera del redattore: i corsivi sono invece presenti anche nell’originale.
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Come dice Nadia, questo esercizio di
disconnessione è allenamento quotidiano.
Per fortuna quei flash di disconnessione di cui parli sembrano essere proporzionali alla possibilità di ancoraggio alla sorgente: meno identificazione = più connessione al proprio se profondo.
Ecco che l’equilibrio si mantiene. Quell’apparente perdita di senso non destabilizza più….così lo vivo ora
Il quotidiano è palestra per questo esercizio di disconnessione.
Letto, concordo con Natascia: “accettare” e “interiorizzare” la mancanza di necessità a dover attribuire i pensieri, emozioni, azioni a un soggetto.
Ma questo è possibile non perché “me lo impongo” ma perché la forza della comprensione che è maturata in me scardina, squaderna il soggetto stesso.
Oggi, ad una seconda lettura, mi pare di entrare un poco più a fondo dei concetti espressi.
Anche l’incontro di ieri, di VDM, mi ha dato ulteriori spunti.
Se si accetta e si interiorizza il concetto che non c’è un io protagonista dei vari accadimenti, pian piano questo diventa esperienza.
Se ci concediamo la libertà di andare oltre la nostra percezione identitaria, dalla gabbia in cui ci tiene limitati, facciamo esperienza di un mondo vasto, dove concetti come: “io sono….” “io ho capito…”, “io ho fatto…”, non hanno più un contesto di riferimento.
Rimane il fatto che accade.
non serve cercare di collegare fatti ,pensieri ,azioni
lasciate che la vita scorra liberamente come il sangue nelle vene…
non si puó fermare l’acqua di una cascata si verrebbe solo sommersi
In effetti, come dice Soggetto, ad una emozione o a un pensiero che sorge cerchiamo sempre una causa poiché crediamo sia conseguente a vissuti consci o subconsci, riconducibili alla centralità dell’ io
Ma, come dice giustamente Elena,se ho ben interpretato, è necessario connettere le azioni, quando il lavoro richiede presenza e conseguenzialita, è necessario disconnettere quando nell’azione si intromette il giudizio dell ‘ io.
Imparando a disconnettere, impareremo anche ad accettare un pensiero che sorge, un’ emozione che si affaccia senza sentirci
svuotati di senso.
Siamo per lo più immersi in una intensa attività del quotidiano e questo richiede connessione e concentrazione sul fare che diviene.
Il lavoro è di disconnessione continua e di vigilanza sui possibili moti identitari che si presentano e che non agganciati paiono innocui.
Ed è anche qui – con un tempo interiore dedicato – che affiora l’Essere che è.