Kōshō Uchiyama rōshi. Discorso d’addio ad Antai-ji.
Come sapete il buddismo sottolinea soprattutto due concetti che in sanscrito sono detti rispettivamente anitya, che vuol dire “impermanenza”, “transitorietà” e pratītya-samutpāda, che significa, detto in poche parole, che tutto ciò che viene in esistenza è prodotto di cause e condizioni, nulla si crea dal nulla né da se stesso, e niente è immodificabile.
In altre parole, la realtà della vita si modifica momento per momento senza il substrato di una sostanza immutabile e permanente. Per esempio, si usa dire che il diamante è indistruttibile e viene usato come sinonimo di qualcosa che dura per sempre, ma di fatto il diamante è un composto del carbonio e può bruciare.
La scienza moderna dimostra che anche le particelle elementari sono in continuo movimento. Tutto è impermanente, e il cosiddetto satori (illuminazione, ndr) è risvegliarsi alla realtà dell’impermanenza, del continuo mutare di ogni cosa. Eppure, c’è chi mira a raggiungere improvvisamente un’illuminazione preconfezionata per appropriarsene. Ma questo non esiste.
Non vi è altro satori che risvegliarsi qui, adesso, momento per momento alla vivida realtà della vita.
Così noi pratichiamo il risveglio proprio ora, proprio qui, in ogni istante. Questo atteggiamento è il senso dell’espressione di Dōgen “pratica e risveglio sono una cosa sola”.
Non è questione di ottenere il risveglio come risultato della pratica, ma di risvegliarci vividamente ora, qui, aprendo la mano del pensiero, perché è nella nostra mente che siamo ottenebrati.
Dobbiamo comprendere bene questo risveglio del buddhadharma, che è aprire gli occhi alla realtà della vita qui, adesso, con vitalità.
Il satori non è l’improvvisa realizzazione di qualcosa di misterioso.
Noi siamo intontiti: rendersene conto e tornare alla realtà della vita, ridesti dall’intontimento, questo è il punto.
Ciò che Dōgen ha definito “pratica e risveglio sono una cosa sola” all’epoca di Śākyamuni Buddha era chiamato pratimokṣa. La parola sanscrita pratimokṣa (in pali pātimokkha) significa “i precetti”.
Nello Yui-kyō-gyō*, l’ultimo insegnamento di Buddha poco prima di morire, è scritto:
“Voi bikkhu, dopo la mia morte, dovete venerare e seguire la pratimokṣa. Se lo farete, sarete come una persona che incontra una luce nelle tenebre o come un povero che ottiene un tesoro”.
Śākyamuni Buddha disse in punto di morte ai suoi discepoli di venerare i precetti e tenerli come guida. Pratimokṣa a volte è tradotto in giapponese anche con espressioni tipo “liberazione momento per momento”, “emancipazione volta per volta”. (Un sommario dei precetti, o mezzi**)
Ovvero, se osserviamo un certo precetto, proprio qui, proprio ora, siamo liberati dalla colpa corrispondente nella misura dell’osservanza di quel precetto. Penso che lo spirito della pratimokṣa sia lo stesso spirito di “pratica e risveglio sono una sola cosa” di Dōgen. “Liberazione momento per momento” significa che una certa cosa si realizza nella misura in cui la faccio qui, adesso.
Ovvero, la vera misura del mio risveglio corrisponde soltanto a quanto io ho realmente aperto gli occhi, aprendo la mano del pensiero, proprio qui, proprio ora. Perciò Dōgen con le parole “pratica e illuminazione sono una sola cosa” esprime lo spirito di Śākyamuni Buddha. Nessuno lo ha mai detto finora in questi termini, ma questo è quello che penso io.
Al giorno d’oggi non molti studenti di buddismo prestano attenzione al concetto di pratimokṣa. Ho chiesto ad alcuni studenti dell’Università buddista di Komazawa se conoscessero o no il significato di pratimokṣa, e nessuno di loro lo conosceva: dunque neppure nelle università buddiste lo insegnano. È molto grave. Se Śākyamuni Buddha ha detto ai suoi discepoli di venerare pratimokṣa più di ogni altra cosa, vuol dire senza dubbio che è la cosa più importante.
Lo spirito di pratimokṣa è lo stesso spirito di “pratica e illuminazione sono una sola cosa”.
Quindi, invece di tendere a qualche illuminazione prefigurata, ora, qui, aperta la mano del pensiero, ci risvegliamo alla vivida realtà della vita. Questo è il buddhadharma.
Fonte
*Fóchuí bānnièpán lüèshuō jiàojiè jīng (giap. Bussui hannehan ryakusetsu kyōkai kyō) Sūtra d’insegnamento breve esortativo lasciato in eredità da Buddha prima del parinirvāṇa T389.12.1110c12-1112b22. Uno dei numerosi sūtra Mahāyāna che sostengono di contenere le ultime parole di Śākyamuni Buddha prima della morte. Questo breve sūtra, influente in Estremo Oriente in particolare nell’ambito della tradizione Chan e Zen, è inciso nella roccia all’interno di una grotta del sito di Ziyang, nella provincia del Sichuan in Cina.
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sembra facile capire con la mente e un secondo dopo phaf! non c’è più niente
“Qui, adesso, momento per momento”
Concetti ascoltati tante volte, eppure ogni volta che vengono proposti, mi accorgo di disattenderli.
Quante volte ancora dovrò rileggerli perché diventino quotidiano?
La coltivazione della contemporaneità di Essere e divenire è la radice ultima di ogni cammino spirituale. Questa radice è il risveglio alla realtà come essa è in-sé e non deturpata dall’aggiunta della narrazione della mente; questa radice è la consapevolezza del presente e dell’esistenza come un insieme di fatti fra loro non concatenati, ma ognuno in sé perfetto e irripetibile.
Trovo molto interessante e istruttivo il fatto che Kōshō Uchiyama Rōshi lamenti come l’osservanza dei precetti sia poco tratta nelle scuole buddhiste. Come a dire che la contemporaneità di Essere e divenire sia sottovalutata, e non sviluppata in tutte le sue implicazioni.
Non è forse questo il pericolo di ogni Via?
Non è forse questo il frutto avvelenato dell’abitudine?
Ovvero, dimenticare la pratica continua del ritorno al presente, lasciando prevalere il recitato mentale.
Saperi antichi che valgono per
l’ eternità.
Ci sono verità inconfutabili che nel tempo e nelle culture risiedono anche se esternate attraverso forme differenti
Antichi insegnamenti in continuità con gli attuali del Sentiero