Kōshō Uchiyama rōshi. Discorso d’addio ad Antai-ji.
Nel Tenzo kyōkun, lo scritto di Dōgen che tratta della funzione del cuoco in un monastero, si legge: “La persona confusa guarda se stesso come fosse un altro, la persona saggia considera l’altro come se stesso”.
A questo proposito, la generazione attuale è considerata una generazione d’indifferenti, e in effetti molti guardano se stessi con apatia, come se stessero guardando degli altri. Sono dei veri somari.
In realtà è all’opposto: il cosiddetto “altro” non esiste. Anche l’altro è me, qualsiasi cosa è me stesso. Sono solo io che vivo. Quindi “la persona saggia considera l’altro come se stesso” significa che tutto quello che io vivo è nell’ambito di me stesso.
Anche nel caso dell’incontro con un altro, sono io che vivo nell’incontro con quell’altro. Il filosofo e teologo ebreo Martin Buber, cantore della vita come relazione, parla di “io e te”, ma in fin dei conti, quello che chiama con la parola “tu” è l’incontro, nel quale è il mio sangue che scorre come incontro di io e altro. Fondamentalmente in tutte le cose scorre il mio sangue, questo è l’atteggiamento importante nella vita.
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Inoltre, io che vivo è sempre me fino in fondo, per cui sia migliorare che peggiorare è sempre affar mio. “Mi è andata male per condizioni ambientali e educative negative”, “È colpa del tale che si è comportato in quel modo”. Non serve a niente continuare a recriminare. In fin dei conti, l’atteggiamento fondamentale di una persona religiosa è dare importanza al fatto che io vivo me stesso.
Andare avanti intontiti è la propria vita, andare avanti a mente sveglia è la propria vita. Trascorrere la vita da intontiti è un peccato. Risvegliarsi nel vero senso della parola significa esortare continuamente se stessi e poi agire: è questa la mente della via.
Quindi “coscienti del fatto che sta a noi migliorarci o corromperci, impegniamoci nel miglioramento della pratica”. E quando giungono persone che non si prendono la responsabilità di se stesse e sono indifferenti, bisogna fare molta attenzione. Fonte
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Mi capita, non di rado, sul lavoro, di richiamare gli altri al senso di responsabilità.
Mi sento libera di farlo, a volte con garbo, a volte con più rudezza, perché non condizionata dal giudizio altrui ed anche, perché l’altro non è da temere, ma un’opportunità di comprensione.
Centrale è la questione delle responsabilità, del farsi carico del proprio cammino. Se considero il mio problema causato dall’altro allora mi blocco la strada a qualsiasi tipo di cambiamento, vesto i panni della vittima.
Solo in una fase matura si può affermare “Anche l’altro è me, qualsiasi cosa è me stesso”.
Risvegliarsi nel vero senso della parola significa esortare continuamente se stessi e poi Agire
Un passaggio che interroga molto..
‘Il cosiddetto altro non esiste, sono io che vivo “.
Le esperienze in cui compare l’ altro sono unicamente a beneficio della nostra comprensione, tant’è che il cf77 afferma l’altro essere un ologramma.
a volte tendo a dare la colpa per la mia dislessia ad altri che non mi hanno educato bene…
ma questo é un modo per fregarmene del problema e non fare niente per migliorare.