Le basi della Via della conoscenza. Ma allora, a che vi servono ardore, volontà, programmi e progetti?
Servono per scoprire che non servono.
Oppure per scoprire che anche i progetti e le spinte dell’ardore, anche altruistico, fanno parte dell’io.
I progetti sono necessari per portarvi a toccare con mano come tutto ciò che fate, anche quando vi risvegliate, sia di nuovo preso e portato avanti dall’io, magari con più radicalità di prima, allo scopo di affermarsi, benché in modo diverso.
Non è che non serva proprio a nulla aiutare gli altri e dare amore, perché tutto quello che viene fatto serve e se poi viene fatto in nome dell’amore, per quanto in quell’amore ci sia un limite, ciò che esso produce è amore.
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Se l’uomo rinuncia al proprio agire per aderire al ciò che è, non deve ascoltare nessun’altra voce. Questo significa che quando un uomo, che si orienta verso la non-mente, decide che a lui niente rimane se non aderire al ciò che è, fa un atto di volontà in cui pone tutto il proprio limite.
Invece, se a un uomo succede che, colto da una spinta che egli stesso non comprende fin in fondo, o spinto da un’onda che egli stesso non comprende fino in fondo, o braccato da una forza che egli stesso non comprende fino in fondo, si lascia andare alla deriva del ciò che è, sia pure per attimi o per brevi momenti, e in lui nasce spontaneo affermare che non c’è null’altro che conti se non la volontà che si stabilisce in ciò che è, allora quest’uomo appartiene già al ciò che è e non ascolta più molte altre voci.
Ancora non ascolta soltanto la voce della Coscienza, ma non ascolta più molte voci o, se le ascolta, riconosce in esse un mormorio che talvolta lo attrae e che talvolta lo spinge ad agire, ma sa riconoscere questo mormorio. Riconoscere il mormorio significa che quell’uomo si accorge che nell’agire non trova più alcuna soddisfazione profonda e che nell’impegnarsi non trova più alcuna soddisfazione profonda e che neppure nel darsi agli altri non trova più alcuna soddisfazione profonda.
In quel momento nasce in lui qualcosa che possiamo chiamare apatia e nell’apatia c’è una spinta che fa parte di un processo di trasformazione per quell’uomo, che va verso il ciò che è, quando scopre che non gli serve più osservarsi, controllarsi o anche giudicarsi, e che non gli serve neppure più far tacere il giudizio. Quando nasce in lui questo bisogno di qualcos’altro, egli entra in uno stato dove tutto risuona in modo opaco, e allora lui si trova dentro la notte dell’animo.
Nella non azione c’è anche il non-essere e se uno non agisce perché aderisce, allora lui chi è?
Se non trova motivo alcuno, alcun desiderio all’agire o alcuna spinta verso un obiettivo, allora egli è un accadere e si lascia accadere.
Lasciarsi accadere significa morire completamente a se stessi e la morte a se stessi non è far tacere alcuni desideri o non è coniugare gli opposti o non è blaterare di meno nella propria mente, ma la vera morte è lasciarsi accadere, senza provare alcunché, fissi lì, nel ciò che accade. E vi è gioia in chi è fisso lì e si radica nel ciò che accade e si lascia accadere.
Questo post è, per me, una pietra miliare perché spiega in modo mirabile il perché dell’ apatia è della notte dell’anima, che preparano a vivere solo il fatto che accade, allora si sta solo nell’accadere.
“Riconoscere il mormorio significa che quell’uomo si accorge che nell’agire non trova più alcuna soddisfazione profonda e che nell’impegnarsi non trova più alcuna soddisfazione profonda e che neppure nel darsi agli altri non trova più alcuna soddisfazione profonda.” Mi fermo a riflettere su questa fenomenologia del “Ciò-che-è”. Il “compromettersi” di ciò che prima dava soddisfazione, il sorgere di quello sguardo che delegittima ogni desiderio, come preludio del “Ciò-che-è”. Ovvero, il mormorio come esperienza del deserto.