Le basi della Via della conoscenza. Se l’uomo si rende protagonista della propria trasformazione, questo significa che lui nega la possibilità di raggiungere il ciò che è. Qual è il nesso che lega la propria volontà di trasformazione con la necessità di far morire questa volontà?
Partecipante: A un certo punto la volontà di trasformarsi diventa inutile perché ci si accorge che non porta a nulla.
No, porta progressivamente a qualcosa di più radicale e quell’uomo si accorge che ogni trasformazione lo lascia insoddisfatto e lo riconsegna a se stesso, non tale quale era, ma con una maggiore insoddisfazione, poiché ogni trasformazione gli ridice che lui è sempre lui. E quindi non è inutile, ma è estremamente utile nel riconsegnarlo all’infelicità dell’io.
L’inutilità per voi sta nel riconsegnarvi sempre al vostro io con la consapevolezza via, via crescente di quanto misero sia l’io.
E allora, l’agire, l’ardore e la volontà vanno coltivati fino a quando saranno essi stessi a distruggersi, perché vi sottolineeranno sempre più che siete niente, niente e niente, ma soltanto espressione di un’onda che muore. L’onda muore quando accetta di essere oceano, quando si riconsegna all’oceano e quindi la smette di volersi programmare come onda.
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Ma, se l’uomo accetta di essere onda e di aderire al ciò che è, questo vuol dire forse che non deve più desiderare e che non deve più interessarsi a un progetto o a una questione? Come mettere insieme l’interessamento a un progetto o a una questione con il fatto di non agire, ma solo aderire? Com’è possibile coniugare l’interessarsi ad una questione, l’interessarsi ad un progetto, provocare anche una questione con il fatto che nulla viene agito ma che solo si aderisce?
Partecipante: Nel momento in cui promuovo delle cose, ma non mi sento attore o protagonista, aderisco semplicemente a qualcosa che lascio fluire e non mi identifico in quello che sto facendo.
E siccome quello che stai facendo deriva dal ciò che è, niente impedisce di sollecitare una questione o d’interessarsi a un problema o di presentare un problema, se questo presentare o questo interessarsi parte dal fatto che nella tua vita succede che esso ti si presenta o succede qualcosa in te che ti porta a esprimere ciò che deve essere detto, anche se la possibilità di equivocare su questo per voi è alta: è infatti facile scambiare ciò che uno ha per la testa con il ciò che è, non certo quando uno è non- mente, mentre per voi c’è questa possibilità, che è maggiormente elevata quanto più andate avanti per questa strada.
Il pericolo per voi è quello di scambiare ciò che è con ciò che la vostra mente, come sua difesa, vi dichiara appartenente al ciò che è. Ma è anche attraverso l’errore che si riprova l’insoddisfazione e si scopre che quello non era il ciò che è, perché nel ciò che è non può esistere insoddisfazione, ma soltanto puro stare, senza alcun movimento né di desideri né di aspettative né di programmi.
Se pensate che ogni passo che state facendo prepari la non-mente, siete sempre racchiusi nella vostra mente.
Se pensate che ogni passo che fate vi porti verso l’illuminazione, siete sempre racchiusi nella vostra mente.
Se pensate che ogni vostro passo vi liberi o vi emancipi da ogni vostro limite, siete sempre racchiusi nella vostra mente.
Se non pensate nulla e vi consegnate all’accadere, la vostra mente muore.
Se non pensate a nulla e vi dite che non occorre che facciate nulla, la non-mente è alle porte.
Però, se pensate che, poiché non pensate nulla, la non-mente è alle porte, vi riconsegnate alla vostra mente.
[…] Lasciate che le azioni muoiano, che il tormento vi scavi, senza però esaltare il tormento ma accettando il tormento e accettando sia il dolore dell’io che muore, sia la vostra insoddisfazione, sia la non pace, sia l’irrequietezza, sia l’affermazione che niente si modifica – che nasce spesso in voi quando si arriva a queste soglie – o che tutto sta sfuggendovi di mano o che tutto sta divenendo oscuro o che tutto sta divenendo banale. Lasciate che questo avvenga, affinché l’io muoia anche nelle sue attese di perfezione, nelle sue attese di gioia, nelle sue attese di bellezza: che tutto muoia, purché nasca l’unica luce che è la vita, che è l’essere, che è l’amore, che è l’Eterno.
Sento vivide queste parole:”l’affermazione […] che tutto sta sfuggendovi di mano o che tutto sta divenendo oscuro o che tutto sta divenendo banale.” L’esperienza del deserto.
Leggo e rileggo queste parole in un momento in cui tutto si è fatto oscuro. Dal fondo del pozzo, a volte, anche la possibilità che la luce accada sembra un altra trappola. Passerà.
“Nel ciò che è non esiste insoddisfazione ma puro stare” Capisco per la insoddisfazione, pure uno può riconoscere il ciò che è nel dolore, nella sofferenza, nella gratitudine, nella gioia, negli stati emotivi appunto, vissuti come semplici accadimenti.
Un passo del percorso è l’osservare. Osservo fino al punto in cui il protagonista scompare e resta l’atto dell’osservare.
Il lavoro che ci porta alla condizione del lasciarsi accadere è ciò che più la mente ostacola. Posso scorgere le insidie ad ogni sccaco, se non seguo le giustificazioni che comunque tendono a non far morire l’ego. Allora posso sperimentare a tratti il lasciarmi attraversare. Questo ripetuto innumerevoli volte, porta gradualmente a un fiaccamento dell’Io e alla resa. Questo ora, il lavoro per me.