Pubblichiamo alcuni stralci del libro di Léo Moulin, La vita quotidiana secondo San Benedetto, Jaca Book editore, 1980.
La prima questione che si poneva era quella del posto della nuova fondazione: perché i monaci andavano a sperdersi in luoghi così lontani, inospitali, spesso in condizioni climatiche che ponevano dei problemi tremendi?
La risposta è semplice: essi cercavano anzitutto la solitudine, lontano dalla corruzione e dal frastuono della città. Ancora essi dovevano trovare i mezzi per sopravvivere. Per questo dovevano avere delle terre, dei pascoli, dell’acqua e una foresta.
Delle terre rese coltivabili tramite prosciugamento e irrigazione, dissodamento, bonifica.
Pascoli per gli animali, acqua per la cucina, la pulizia dei locali e specialmente dei necessaria (servizi igienici), la cura del corpo, l’irrigazione dei giardini, i vivai, la fabbricazione della birra, i mulini che all’epoca rappresentavano uno dei punti avanzati della tecnologia e il cui impiego era allora molteplice.
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La foresta, una foresta di piccole querce, betulle e di carpini — è il caso della immensa foresta delle Ardenne — forniva il legno delle installature, gli utensili, i paletti per i giardini; essa forniva anche la cucina di combustibili; le ghiande permettevano ai maiali di nutrirsi.
Vi era un ordine ben preciso per l’ammissione dei suini: dapprima quelli del monastero, quindi in ordine quelli del re, dei signori del villaggio e infine quelli dell’università.
Più tardi la foresta sarà sottoposta a uno sfruttamento commerciale saggio e previdente. Poi quando l’abbazia avrà gettato le basi di una industria metallurgica, è ancora la foresta che assicurerà la fornitura di energia: a Orval, per esempio, i trenta operai che lavoravano alle fucine erano provvisti di legna da più di 460 legnaiuoli.
Non dimentichiamo poi le bacche, le nocciole, i frutti del faggio, i funghi, le corniole che fornivano un complemento non irrilevante alla nutrizione, il muschio e le foglie cadute che servivano da letame. Non dimentichiamo soprattutto il miele delle api selvagge, così prezioso che un uomo chiamato Bigrus ha il compito particolare di scoprirne i nidi.
Infine la foresta come la notte è fonte di terrori panici sia per la soldatesca e i briganti che per gli arditi cavalieri bardati di ferro: essa costituisce una cintura di protezione per lo sparuto numero di monaci disarmati che vi sono rifugiati.
Si vede dunque che le ragioni che inducono i monaci a stabilirsi in un posto o nell’altro sono dettate dalle esigenze stesse della loro vocazione e del loro stile di vita. Contrariamente a quanto afferma un certo romanticismo di cattiva lega, la scelta non è affatto determinata dal desiderio morboso di vivere in boschi selvaggi, su terre infeconde, alla mercé di paludi pestilenziali.
Ai nostri giorni il giudizio è completamente cambiato e si ammira piuttosto la bellezza dei posti scelti dai monaci, si direbbe quasi con un istinto sicuro. E in effetti alcuni paesaggi monastici sono di una bellezza impressionante. Gli esempi si moltiplicano sotto la penna: Thoronet, Sénanque, Saint-Martin-du-Canigou, Poblet, Alcobaca, Hirsau, Rievaulx e molti altri.
Per quanto possa essere giustificata, questa ammirazione esige tuttavia delle riserve. La prima è che i monaci non hanno sempre scelto bene; più di una volta essi han dovuto abbandonare la loro prima fondazione per stabilirsi in un posto meno ingrato e meno esposto. La seconda è che il loro lavoro secolare ha profondamente umanizzato il paesaggio. La bellezza è in buona parte opera degli uomini.
Ogni monachesimo ha il suo fascino e le sue difficoltà. Come dice Nati, il posto esteriore aiuta a custodire il proprio eremo interiore
Molto interessante grazie
L’importanza dell’ambiente in cui si vive. Qual è la nota che mettiamo. I colori, la cura, ogni cosa contribuisce. Ognuno di noi è artefice del proprio eremo.
Il luogo è proiezione senz’altro di esigenze interiori e dunque di solitudine, ma c’è da dire che all’epoca non era così difficile trovare un luogo isolato dato che molti meno erano i centri abitati rispetto a oggi e meno le persone in generale. Determinati luoghi isolati erano sopratutto scelti per questioni pragmatiche come è ben spiegato. Se non si voleva avere contatti con il “mondo” bisognava che il luogo scelto avesse tutte quelle caratteristiche affinché si potesse essere il più possibile autonomi e capaci di produrre quella “ricchezza” necessaria per gli scambi. E in quello si realizzava l’essere monaci presso i benedettini: nel lavoro e nella mansione assegnata si entrava in contatto con Dio e non solo nella preghiera e nella liturgia. Poi, la bellezza del paesaggio come motivo estetico era estraneo a quei monaci e solo più tardi con San Francesco il paesaggio assumerà una valenza contemplativa.