II cuore di un’abbazia, la sua unica ragione d’essere è evidentemente la chiesa. Sia essa umile o sontuosa è da essa che ogni giorno, giorno e notte, si eleva la preghiera dei monaci.
Ma tutt’intorno a questo edificio primario sorgono i numerosi edifici necessari alla vita comunitaria: il chiostro, la sala capitolare dove si riunisce la congregatio, il capitolo, la biblioteca, il dormitorio, i servizi detti necessaria o latrina, la sala delle abluzioni, il refettorio e la cucina, l’infermeria che in una grande abbazia poteva avere la sua propria cappella, il suo chiostro, la sua cucina e il suo giardino.
Questi locali sono mantenuti in uno stato di pulizia esemplare. «Ogni sabato ci si dedica alla pulizia», stabilisce San Benedetto (c. 35,13). La pulizia è una delle cure principali di queste comunità di uomini. Il refettorio, per esempio, è sottomesso alla sorveglianza del refectorarius. Spetta a lui pulire ogni inverno le finestre di vetro e assicurare la pulizia dei carrelli del refettorio con una scopa di giunchi e di sterpi. D’estate egli ricopre il suolo di fiori, di menta e di finocchio. Questo genere di attenzioni non si limita evidentemente al solo refettorio. È così che alcuni consuetudinari (dei libri in cui erano raccolti usi e tradizioni dei monasteri) prevedevano che il secretarius doveva pulire gli altari cospargendoli con l’issopo o il bosso di acqua e di vino.
Necessariamente ogni monastero comprendeva inoltre diversi laboratori (c. 66,12-15): panetteria, lavorazione del formaggio, del vino e, a volte, delle cantine, dei magazzini per le provviste, dei forni, un lavatoio, delle stalle, delle scuderie.
Non dimentichiamo poi i locali per raccogliere i pellegrini, gli ospiti, i viaggiatori e i delegati delle abbazie durante i giorni che durava il capitolo generale.
Infine nel Medioevo ogni monastero ha i suoi vivai, i suoi alveari, il suo orto, il suo frutteto, le sue aiuole di erbe medicinali. Più lontano si estendevano i pascoli, le coltivazioni e i boschi.
Il chiostro, claustrum, è il centro e l’anima della cittadella monastica. È il luogo dove si svolgono le attività sociali della giornata: la distribuzione degli incarichi a opera dell’abate o del priore, l’esecuzione di alcuni lavori, il lento corteo dei monaci che si recano in chiesa o nella sala capitolare, la lettura, la meditazione, in altri tempi la siesta.
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Per lungo tempo il dormitorio fu comune per tutti, ivi compreso l’abate. Alcuni erano molto grandi: 66 metri per 12 a Poblet. Era in effetti uno dei vertici della mortificazione monastica. Alcuni trappisti che hanno conservato questa tradizione fino ai nostri giorni mi hanno assicurato che hanno avuto bisogno di un certo tempo per abituarvisi. Si può ben credere loro. Per quanto gli uomini di altri tempi siano stati abituati alla promiscuità della vita sociale, i religiosi lottarono molto presto per non subire più questo supplizio quotidiano e per ottenere un divisorio o una tenda che assicurasse loro, se non il completo silenzio della notte, almeno un minimo d’isolamento.
Il letto: un tavolato con un saccone di fieno, di paglia o di foglie morte, una stuoia, una coperta, un copripiedi e un cuscino. I religiosi dormivano completamente vestiti, togliendosi solamente Io scapolare. In alcuni monasteri il rigore era spinto fino al punto da dormire sul tavolato, senza coperta. Altri invece tolleravano dei lenzuoli di lana o di lino: agli occhi dei rigoristi era un oggetto di scandalo!
II monaco deve alzarsi «senza ritardo al segnale dato» (c. 22,13) da una campana o da uno strumento di legno. San Benedetto non sopporta i ritardatari. Ma la sua tenerezza per gli uomini, avremo l’occasione di mostrarlo, la spunta regolarmente sulla sua volontà dì esigere da essi un poco di più o molto di più di quanto essi non sarebbero portati a dare spontaneamente. Alla fine di questo stesso capitolo della regola egli scrive: quando si levano per l’ufficio divino si esortino a vicenda con garbo, moderate, «per dissipare le scuse dei sonnolenti», propter somnulentorum excusationes (c. 11,19). Tratto tipico della discretio, del senso di misura che caratterizza il Santo.
Del riscaldamento nessuna traccia. Fino al diciassettesimo secolo, fino all’invenzione delle «stufe» di maiolica, la società ha conosciuto in inverno gli aspri morsi del freddo. A ciò si aggiunge per i religiosi una incredibile volontà di mortificazione.
Nessun posto del monastero è riscaldato, a eccezione evidentemente della cucina il cui accesso è severamente proibito a tutti.
Nella Chiesa il gelo è a volte cosi aspro che il sacerdote non riesce a officiare e il sacrestano deve portargli un recipiente di metallo contenente della brace che gli renderà le dita un po’ meno intirizzite.
Nello scriptorium l’inchiostro gela nei calamai: il copista è autorizzato, grande concessione, a recarsi in cucina perché l’inchiostro ritrovi la sua fluidità.
Non è che la regola, benché scritta in Italia, non affronti il problema. Il capitolo 55,1-4 è esplicito su questo punto: «Ai fratelli si diano vesti tenendo conto dei luoghi dove risiedono e del clima, perché vi è più bisogno di coprirli nelle regioni fredde che nelle calde». La decisione in materia è lasciata al giudizio dell’abate. Non tutti ebbero la discretio di Benedetto. Tuttavia, e ciò è a tutto onore dell’uomo, anche i regimi più duri trovarono sempre nei vari secoli degli uomini decisi ad adottarli.
In alcuni paesi, in Germania, in Scozia, in Scandinavia, il freddo è a volte cosi intenso che può paralizzare la vita della comunità. Bisognò dunque decidersi a prevedere sia una sala riscaldata chiamata calefactorium, sia dei bracieri. È lì che i fratelli pregavano o leggevano, subivano il salasso o toglievano il fango dalle loro scarpe. È anche lì che essi venivano rasati dai loro fratelli, barbieri improvvisati. I monaci difatti non si rasavano da se stessi.
Ma bisognava che facesse un grande freddo per poter ricorrere a questo mezzo. Alcune abbazie non ebbero mai un riscaldamento e non se ne servirono che nelle feste solenni, a Natale o a Tutti Santi, per esempio. All’ora del pasto o del sonno i monaci con le dita coperte di geloni ritrovavano il refettorio o il dormitorio gelati.
L’illuminazione era scarsa. I mezzi per procurarsela difatti, olio d’oliva e di papavero, sego o grasso di montone, cera d’api, erano rari e quindi costosi. Una piccola fiamma, modicus ignis, un filo di stoffa immerso nella cera chiamato lucubrum o candela, bruciava nel dormitorio «fino al mattino» (c. 22, 7-8). In inverno anche il refettorio era debolmente illuminato.
Il solo luogo per il quale non sì lesinava era la Chiesa: essa è sontuosamente illuminata, un quintale di cera per le feste di Pentecoste, ad esempio. Ma si tratta di una eccezione e alcuni testi del 1300 ci dicono che a Cluny, la grande e sontuosa Cluny, non c’era sempre il materiale per illuminare la Chiesa per cantare mattutino e lodi.
Campane pesanti, campanae, o leggere, tintinabula, campanelle, minima signa o scilla, a volte un gong, cymbalum, nei giorni che precedevano Pasqua, uno strumento di legno, postes, perché il suo suono era più «umile» di quello del bronzo, ritmavano la vita quotidiana dei monaci. L’espressione «fare il diavolo a quattro» (letteralmente in francese «essere ai cento colpi») verrebbe dal centinaio di colpi suonati come ultimo segnale dell’ufficio.
Bisogna obbedire all’istante, al primo segnale (ec. 22, 13, absque mora o c. 48, 28, primo signo}: siamo qui di fronte a una forma di ascesi della volontà poco comune.
Pubblichiamo alcuni stralci del libro di Léo Moulin, La vita quotidiana secondo San Benedetto, Jaca Book editore, 1980.
Affascinante anche se trovo eccessivo il rigore che riguarda gli ambienti non scaldati a fronte dei disagi/malanni dei monaci.
Il monastero :una vera cittadella dove niente è lasciato al caso, gli ambienti sono curati e la vita dei monaci scorre più che spartana. Se i tempi sono cambiati, dovremmo comunque, nelle nostre vite, mantenere linda la cella esistenziale ed essenziali i bisogni personali.
Della pulizia colpisce l’attenzione ai particolari. Se è pur vero che in un’epoca dove condizioni di vita e cure erano più “rudimentali” e dunque la pulizia poteva essere una prevenzione importantissima contro la diffusione di epidemie e malattie, il testo ci parla di un’attenzione che va oltre il mantenimento di un ambiente salubre. Direi un’attenzione che rivedo nei passi del “Tenzo kyokun” di Doghen, dove anche lì si tratta delle regole per i monaci. Intendo, dunque, quella cura che non è forma vuota ma espressione della dedizione totale alla Via e della capacità di saperla incarnare. Colpisce, inoltre, la severità delle condizioni in cui vivano e che deliberatamente accettavano. Per esempio, il dormitorio comune viene descritto come: “uno dei vertici della mortificazione monastica”, in quanto erano comuni e non concedevano spazio all’individuo, al singolo. Per quanto estrema questa condizione si può comprende se vista come un modo, per eliminare ogni elemento di attaccamento personale e cercare di favorire così l’instaurarsi della dimensione “comunitaria”, del “noi” al posto dell'”io”.