II monaco è un uomo che ama la vita. La nevrosi e le disperazioni romantiche non hanno posto nelle abbazie. Similmente egli ama la buona tavola altrimenti non si spiegano le minacciose proibizioni dei consuetudinari (e le infrazioni).
Se egli accetta di non mangiare mai carne né grasso, se si accontenta di «erbe» e di «radici», di uova e di pesce, è per spirito di mortificazione e non perché egli disprezza o non conosce le gioie della tavola. Ogni giorno al prandium (il pranzo degli italiani), i monaci di Cluny ricevevano due piatti. È una concessione di San Benedetto alle debolezze, il patriarca scrive: infirmitates, di tutti e di ciascuno.
Il primo consiste in farina di avena e di orzo bollita; il secondo è fatto di «erbe», cioè di ciò che cresce sul suolo – legumi di ogni specie, insalata, cavoli, porri e cipolle — e di «radici» — bulbi, carote, rape e a partire dal XVII secolo le patate. Quindi frutta, formaggio, latticini, vino o birra.
Nei giorni di digiuno, i monaci non facevano che un solo pasto: alle due nei digiuni previsti dalla regola dal 14 settembre a Pasqua, alle quattro del pomeriggio in Quaresima. Mangiare in queste condizioni, quando si è in piedi dalle prime ore della notte e digiuni da 24 ore è veramente un disjunare, cioè «rompere il digiuno». Al di fuori di questi periodi di privazioni quando tutti conoscevano «l’esperienza e le prove del rifiuto» (R. Ruyer), era previsto un pasto di sera, cena, più leggero del prandium.
Raccolta fondi per le iniziative editoriali del Sentiero contemplativo
Una porzione supplementare di uova, di formaggio cotto, di cipolle, servita in un solo piatto era chiamata generale o pietanza, dal latino pietas, perché questo supplemento, che in Quaresima consisteva di minestra al latte, molto spesso era assicurato da pie fondazioni: spesso era una porzione da dividere in due.
I monaci conoscevano ancora il mixtum, cioè del pane intinto nel vino (o nella birra) preso dopo l’ufficio del mattino e dopo i Vespri; il liberes, dopo nona, e la collatio, un pasto frugale preso dopo la lettura delle collationes di Cassiano nei giorni di digiuno (c. 42).
II pane, fatto il più delle volte di farina mescolata di orzo, miglio, farro, o segala, orzo e frumento con aggiunta di legumi nei giorni di bisogno, costituiva la base insieme con i farinacei, polenta o porridge, della nutrizione medioevale.
Lo si preparava in tantissimi modi, andando dalle torte fatte in padella chiamate focacce al panis natalitius, il pane di Natale, dal pane tostato, dal biscotto (biscoctus, cotto due volte) ai gressins (da gresa, grasso), i nostri attuali grissini.
I monaci come tutti nel Medioevo e d’altronde fino all’inizio del XIX secolo mangiavano molto pane. Queste razioni, unite ai farinacei e ai legumi che formavano la base del regime alimentare quotidiano, potevano, fuori dei giorni di digiuno, a dire il vero molto numerosi, dare quotidianamente da 5.000 a 6.000 calorie e ingrassavano molto i monaci. La malizia popolare ripeteva volentieri: «grasso come un monaco». Il suo errore consisteva nell’attribuire l’obesità monastica alle pretese gozzoviglie del refettorio.
- Eremo dal silenzio, tutti i post dei siti
- Le basi del Sentiero contemplativo
- Un nuovo monachesimo per i senza religione del terzo millennio
- Libro: ‘Il Sentiero contemplativo a dorso di somaro’
- Libro: ‘Come la coscienza genera la realtà personale‘
In generale, dice un rapporto del 1749, i monaci erano nutriti «frugalmente, onestamente, convenientemente» in un refettorio «ampio, bene illuminato e ben pulito».
Noi dobbiamo ai monaci l’abitudine di consumare regolarmente dei formaggi. Anche questo fatto si spiega con il genere di vita adottato e praticato da loro. Fare il formaggio esige delle grandi quantità di latte: considerando la rarità del bestiame e il suo debole rendimento, essi erano i soli ad avere del latte in eccedenza. Questa eccedenza contribuiva a conservare e ad accrescere la loro volontà sistematica d’ingannare il loro appetito e di non utilizzare il burro.
D’altra parte solo un ambiente artigianale altamente qualificato, preciso, minuzioso, osservatore, come l’ambiente monastico, era in grado di mettere a punto e di trasmettere di generazione in generazione le tecniche delicate e raffinate che consentivano la fabbricazione e la cura del formaggio. Non c’è dunque da meravigliarsi che «seguendo le tracce dei grandi monasteri — scrivono S. Claudian e Y. Serville — questa tecnica è riscontrabile in Svizzera, in Gallia, nei paesi del Reno, nelle Fiandre, in Gran Bretagna».
Da qui l’efflorescenza d’innumerevoli formaggi di trappisti: lo chaligny, il munster, il saint-maur, e tanti altri.
Pubblichiamo alcuni stralci del libro di Léo Moulin, La vita quotidiana secondo San Benedetto, Jaca Book editore, 1980.
Interessante, soprattutto scoprire che l’uso del formaggio lo dobbiamo ai monaci