La vita monastica nel medioevo16: la malattia

Un monaco non ha eccessiva cura di sé, né si lamenta mai: «i tuoi mali restino tra Dio e te». Se un fratello voleva prendere una medicina in assenza del padre abate, «medico delle anime» (c. 27,4 e 20,8-18), egli doveva ottenere previamente il permesso (venia) del capitolo e chiedere di pregare per lui.

In generale le medicine erano rare e poco utilizzate. Se un fratello si ammala, egli chiederà all’abate il permesso di potersi recare in infermeria. Se la malattia è grave e improvvisa (passio suibia et gravis) al punto da renderlo incapace di chiedere aiuto, ciascuno gli porterà aiuto.

L’infermiere, «un servitore timoroso di Dio, devoto e sollecito» (c. 36,13-14), è responsabile dei malati ma anche dei vecchi, degli infermi, di coloro che sono depressi (accidiosi), dei monaci che hanno subito il salasso. Egli concede i bagni (ogni volta che è necessario, c. 36,14), le bevande, gli elettuari (miscela con vari ingredienti tra cui predominava il miele), le medicine a base di oppio e altri rimedi forniti dalla povera medicina di un tempo. Quando la sua esperienza non gli è più sufficiente, egli consulta il medico (spesso un laico).

Egli deve inoltre sfruttare il giardino dove crescono le piante semplici e medicinali, occuparsi del pasto; e dato che è difficile ricorrere continuamente alla cucina — che in alcune abbazie è molto lontana dall’infermeria — egli ha gli strumenti necessari per preparare, condire, riscaldare alcune pietanze, o utilizzare i resti che possono essere presentati honorifice, onorevolmente, ai malati.

Egli si preoccupa di mantenere il fuoco nell’infermeria — il locale è uno dei pochi nel monastero dove faccia caldo e questa, come vedremo, è una delle sue maggiori attrattive — e la sua illuminazione la notte.

Egli celebra la messa ogni giorno, dice, se necessario, parole di conforto, sarà dolce, paziente (patienter portandi sunt, c. 36,9) e servizievole. «L’assistenza che si deve prestare ai malati deve venire prima e al di sopra di ogni altra cosa — dice il capitolo 36 della regola — sicché in loro si serva davvero il Cristo poiché egli ha detto: “ero malato e m’avete visitato”»

«Ma anche i malati da parte loro — aggiunge San Benedetto in una frase che prova la sua conoscenza profonda e quindi senza illusione degli uomini — riflettano che vengono assistiti per onorare Dio, e non affliggano i fratelli che li accudiscono con pretese eccessive» (non super fluitate sua contristent fratres suos servientes sibi, c. 36,7-8).

Altra prova di questa lucida conoscenza della natura umana, il patriarca aggiunge, questa volta rivolgendosi all’abate: «egli si preoccupi particolarmente che (i malati) non siano in qualche modo trascurati» (c. 36,10-12) e più avanti (c. 36,21-22): «che non siano trascurati dagli infermieri o cellerari». Ed egli precisa: «infatti è proprio su di lui che ricade la responsabilità di ogni mancanza (quicquid delinquitur) dei suoi discepoli».

Le visite ai malati non erano permesse senza l’autorizzazione dell’abate. Un monaco malato non può sperare alcun miglioramento dalle parole dei suoi parenti poiché, dicono i testi di una volta, c’è molta possibilità di essere «sporcati» dalla visione delle cose terrestri che la visita porta con sé.

Paragonata alla vita di un monaco che stava bene, la vita nell’infermeria era deliziosa. Vi si tollerava l’uso della carne «per i malati molto debilitati perché riacquistino le forze» (c. 36, 17-18), vi si preparavano dei brodi di pollo, di pesce, che ordinariamente non erano permessi, delle schiacciate (di grano, d’orzo e d’avena) e della frutta. La razione di vino vi era misurata meno strettamente. Si suonava la musica per i fratelli in stato di depressione, si era dispensati dall’Opus Dei e dal silenzio. In breve la disciplina monacale vi era un po’ rilassata e questo era uno dei punti di maggior attrazione di questo luogo. Spettava all’infermiere rendersi conto se aveva a che fare con dei simulatori o anche dei monaci che volevano riposarsi per qualche giorno.

Pubblichiamo alcuni stralci del libro di Léo Moulin, La vita quotidiana secondo San Benedetto, Jaca Book editore, 1980.


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