Chi è consapevole di cosa? L’identità è consapevole di sé? Ma se non esiste l’identità come corpo, quel livello di consapevolezza non può che essere una risultante. La risultante di cosa, di quale processo?
Di un flusso di dati: questo gran parlare di noi come soggetti di mirabolanti avventure esistenziali, alla fine si riduce all’essere la risultante di un flusso di dati che si specchiano nei vari corpi.
Consideriamo come nostro essere l’immagine ologrammatica che vediamo riflessa a un determinato livello vibratorio.
Non una dunque, ma molte consapevolezze che più sono relative a piani vibrazionalmente elevati più colgono l’unitarietà del nostro vivere. La coscienza ha uno sguardo molto più unitario del corpo mentale, i corpi spirituali, ciascuno, hanno visioni ancora più unitarie.
La questione che voglio trattare qui: è vero che esiste una consapevolezza frutto dell’identità?
No, come dicevo all’inizio: allora quella che chiamiamo ‘noi’, ‘soggetto’, ‘identità’ dove sorge?
Dalle molte consapevolezze accennate. Quali di queste consapevolezze ci è accessibile?
Dipende dallo sviluppo dei vari corpi, più sono costituiti e organizzati più generano auto-consapevolezze chiare, più è nitida l’immagine nello specchio.
Un corpo akasico, della coscienza, poco evoluto e strutturato, avrà una immagine unitaria di sé molto vaga; un corpo evoluto sentirà con chiarezza lo stato del sentire (del compreso) in sé.
Il cosiddetto soggetto, noi, avrà la consapevolezza non del suo corpo akasico, ma della risultante delle immagini riflesse nei quattro specchi inferiori: la consapevolezza del soggetto sarà consapevolezza parziale rispetto alla consapevolezza della coscienza e dei corpi superiori, ma sarà comunque una consapevolezza unitaria, se il suo corpo della coscienza è abbastanza evoluto/costituito.
Perché affermo questo? Perché non esiste una consapevolezza relativa alle sole quattro situazioni vibratorie inferiori, non è possibile frazionare, dividere in compartimenti stagni ciò che è unitario.
La consapevolezza che abbiamo di noi ha in sé elementi più o meno vasti della consapevolezza akasica e di quella superiore, non è mai consapevolezza del cosiddetto ‘io’, e invece, comunemente, e anche nei vari insegnamenti filosofici, questo aspetto unitario della consapevolezza si perde, si parla di identità e di coscienza come fossero pianeti differenti.
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In questo post cerco di affermare quella che è la mia esperienza, prima di essere anche una visione: io sento questo essere che chiamo me come unitario, e per me non ha alcun senso parlare di identità: ciò che faccio e vivo male non è responsabilità dei limiti identitari, è responsabilità di limiti di comprensione.
La consapevolezza che ho è unitaria, vede l’insieme di una incarnazione, le cerniere su cui ruota, il contesto esistenziale che contiene le esperienze, la relatività delle fibrillazioni mentali e astrali.
Da questo punto di vista non sento nemmeno di condividere la cosiddetta variabilità e impermanenza dell’identità: vedo le emozioni e i pensieri cangianti, ma abbracciando lo sguardo in modo unitario l’incarnazione e il suo senso esistenziale, vedo le coerenze e il disegno generale che tiene assieme il tutto e che non è poi così volatile.
Certo, tutto questo nell’ottica del divenire, esposto nei termini del divenire. Ma, anche a questo livello, credo vada superata la frattura Essere/divenire: nella mia esperienza i due sono uno, vivo il divenire sentendolo come Essere, scompongo ogni sequenza del film in fotogrammi d’Essere.
Ma su questo tornerà in futuro consapevole che come va superata la dicotomia coscienza/identità, va anche superata quella Essere/divenire.
Sento ancora molte comprensioni da colmare per afferrare l’esperienza descritta. Ne avverto il senso, anche per me da rileggere e meditare.
Testo da leggere con attenzione e da discutere con attenzione, perché molto innovativo nell’accezione di identità.
Sicuramente da rileggere perché non molto chiaro o forse è solo particolarmente semplice. Nella mia esperienza non mi chiedo ad esempio chi sente cosa, la consapevolezza unitaria dello sguardo non può che avere anche una unitarietà che la origina.
Se fino ad ora, parlare in una logica duale, pur racchiudendola in una dimensione unitaria, rappresentava comunque un punto di riferimento. Ora è chiesto un ulteriore passaggio. Ora non ho chiaro il quadro, complice il frazionamento che vivo in questo periodo di intenso lavoro. Ma sento che quella è la strada.