Osare è non lasciarsi fermare dalla consapevolezza del limite, è quindi il processo consapevole della persona che vede se stessa. Il minerale, il vegetale, l’animale, l’umano inconsapevole non osano, semplicemente sono condotti da una forza primaria e ineludibile.
L’umano inconsapevole è condotto dalla sua coscienza e questa, a sua volta, da quella forza. L’umano consapevole vede il proprio limite, lo integra, lo accoglie, non lo teme e afferma: “Debbo, voglio vivere. Voglio sperimentare perché solo attraverso le esperienze andrò oltre ciò che mi condiziona e potrò manifestare aspetti più vasti della natura che mi è data!”.
L’osare è gesto della coscienza e dell’identità che procedono in sintonia. Se la coscienza ha compreso che non può che generare scene che le permettano di comprendere, ma l’identità ha paura, la scena non accade. È naturale che l’identità sperimenti la paura del nuovo, del non conosciuto, ma, sotto la pressione della coscienza e della stanchezza di una certa condizione esistenziale, cede alla pressione e realizza la scena.
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Allora si avvia il processo dell’osare consapevole che porta con sé l’umore di una certa follia perché è illuminato da una fiducia di fondo: “Comunque vadano le cose, imparerò!”
Ora, si giunge a questa determinazione quando si è stanchi di sé e dei propri meccanismi paralizzanti, sei d’accordo?
Si, stanchi dei propri meccanismi paralizzanti e anche affrancati, almeno in parte, da condizionamenti esterni di aspettativa e inibizione. A volte però mi sembra di vedere persone consapevoli e stanche dei propri meccanismi che non riescono a concedersi il gesto di osare, che restano dolorosamente inceppate. Perché?
Perché osare vorrebbe dire rompere l’immagine che hanno creato di sé. Vivere certe dinamiche, certe passività, svalutazioni; subire certi condizionamenti o sopraffazioni; coltivare certi stati umorali, certe letture di sé, come nel depresso, sono dinamiche della mente che nel tempo divengono struttura, componente strutturale dell’identità.
Lo stato depressivo diviene ciò che conosco e ciò che mi definisce; il subire certi condizionamenti o certe violenze è parte integrante della mia identità di vittima: chi sei? La vittima! Per alcune persone è particolarmente complesso staccarsi dall’immagine che hanno creato e alla quale hanno aderito per lungo tempo: sembra loro che se lasciassero quella immagine non sarebbero più niente.
La loro consapevolezza non arriva a vedere il gioco sottile della mente, a smascherarlo e ad avere sufficiente forza di volontà da disconnetterlo con determinazione ogni volta che si presenta.
Si vedono nelle loro dinamiche ma non hanno la spinta necessaria al cambiamento: spesso quella spinta manca perché il modello interpretativo di sé che usano è privo di aperture oltre l’identità.
Infatti l’affermazione: “Se perdo questo, cosa sono?!” ha senso quando non si riesce ad immaginarsi altro che identità, quando non è mai stata affrontata la possibilità che noi non si sia identità, ma ben altro.
La persona non conosce la fiducia, non si è aperta a quella dimensione: se l’avesse fatto quella identificazione si sarebbe incrinata. La fiducia apre su prospettive completamente nuove e rompe il sistema d’identificazione-controllo. La persona sofferente è spesso chiusa nel suo mondo e nel suo dolore: se sperimentasse la fiducia nulla nella sua vita potrebbe rimanere cristallizzato.
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NB: il testo che compare in questi post in alcuni passaggi differisce sostanzialmente dal contenuto del libro, questo perché, nei dieci anni trascorsi, molte cose abbiamo approfondito e compreso meglio.
D’altra parte, oggi non riusciremmo a esprimerci con la semplicità di ieri mentre il nostro obbiettivo, nel riprendere questi contenuti, è proprio quello di dare a chi ci legge un testo semplice, per un approccio di base al Sentiero contemplativo.