La responsabilità intesa in senso karmico: vorrei che scendessimo nel ventre di questo aspetto della vita dell’umano e inizierei provocandoti: l’assassino è responsabile del suo gesto?
Sono responsabile di ciò che non ho compreso? Sono responsabile di ciò che la coscienza mette in atto nei suoi reiterati tentativi di acquisire dati, atomi di sentire, che le permettano di ampliare la propria comprensione?
Credo di essere responsabile di ciò che ho compreso e che non applico, non di ciò che non ho compreso. La coscienza che sperimenta il gesto dell’assassinare lo fa perché non ha compreso che è un gesto non praticabile perché viola un diritto dell’altro: quindi attiva-abilita-veicola quel gesto perché è ancora in balia delle spinte primarie alla sopravvivenza e all’affermazione, chiusa in un’isola egoica dove la frattura io/tu è drammatica.
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Quella coscienza non ha ancora scoperto l’altro; tutto viene letto e praticato con sé, i propri bisogni, i propri diritti al centro. Non ha scoperto né i doveri, né la dimensione collettiva e condivisa dell’esistenza. Ha ucciso mentre stava sperimentando tutto questo, mentre nell’officina erano in lavorazione queste aree del suo sentire.
Essere responsabile significa una cosa precisa: “Conosco la portata di quello che sto mettendo in atto, me ne assumo la paternità e mi carico sulle spalle le conseguenze cui darà luogo”. Niente di tutto questo è presente in una coscienza che non lo ha compreso: non sa della portata dell’azione – non ne comprende la gravità – non può assumerne le conseguenze perché quello che ha vissuto è solo un fatto giustificato dalla difesa del proprio interesse/diritto.
Completamente diversa è la situazione quando l’assassino ha già compreso non solo il diritto proprio, ma anche il diritto dell’altro e il non essere la vita altrui nella propria disponibilità. Se uccide in un momento di rabbia, di gelosia, di competizione, sa che non deve farlo ma non riesce a gestire i suoi impulsi e il sistema delle emozioni/pensiero – proprio della struttura dell’identità – lo conduce oltre quello che sa che non deve fare: in questo caso c’è una coscienza che ha compreso e un’identità che non segue, non ottempera la comprensione.
Qui c’è responsabilità e qui la persona potrà lavorare su se stessa cercando di superare questa dicotomia tra ciò che è sentito e ciò che è praticato. Il lavoro consisterà nell’allineare l’identità al sentire, nell’armonizzare i vari piani costitutivi dell’essere.
Nel primo caso bisogna mettere l’assassino nella condizione di fare esperienze che amplino il proprio sentire e lo portino alla scoperta dell’altro e dei suoi diritti; in questo secondo caso bisognerà lavorare sulla relazione coscienza/identità, sulla gestione degli istinti e delle emozioni, sulla disconnessione, sulla non identificazione.
Come per l’assassino, questi argomenti valgono per ogni azione umana e per ogni pensiero: tutto è da porre in relazione con il compreso o il non compreso.
La stessa funzione del senso di colpa come va interpretata?
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NB: il testo che compare in questi post in alcuni passaggi differisce sostanzialmente dal contenuto del libro, questo perché, nei dieci anni trascorsi, molte cose abbiamo approfondito e compreso meglio.
D’altra parte, oggi non riusciremmo a esprimerci con la semplicità di ieri mentre il nostro obbiettivo, nel riprendere questi contenuti, è proprio quello di dare a chi ci legge un testo semplice, per un approccio di base al Sentiero contemplativo.
Argomento chiaro. Grazie