Il senso di colpa e d’inadeguatezza esistenziale [sentiero31]

La stessa funzione del senso di colpa come va interpretata? C’è un senso di colpa che si sviluppa nell’identità perché ciò che è stato operato, o pensato, o provato, non è conforme al modello di sé interiorizzato.

La persona cerca di rimanere coerente con l’ideale visione di sé che si è costruita e quando questa coerenza viene meno sorge un senso di frustrazione, di delusione, d’inadeguatezza che prende la forma del senso di colpa.

È una reazione naturale quando è contenuta nella sua manifestazione perché parla in modo molto chiaro della rappresentazione che l’identità mette in atto e delle sue problematiche funzionali: l’attore si interroga sulla sua performance. Naturalmente quella dinamica, oltre un certo livello di pressione, diventa un macigno che condiziona tutta la vita e la paralizza.

L’altro volto del senso di colpa è più sottile: la persona è consapevole che ciò che ha operato, pensato, sentito, non è adeguato, ha un limite di fondo, evolutivo. La persona si sente inadeguata non rispetto a un modello, è una inadeguatezza più profonda e molto più radicale: sente che non è all’altezza di una spinta che avverte sorgere ma che è ostacolata da qualcosa nella meccanica dei corpi e dell’identità.

Ti faccio un esempio. Nel tempo ho imparato a dare l’elemosina: all’inizio non mi risultava semplice in virtù di tante considerazioni sulla figura del mendicante e c’era in me una inquietudine che, pian piano, mi ha portato a comprendere che non conta chi è il mendicante, conta quello che faccio io, se mi apro o no ad una domanda.

Una pressione interiore mi ha condotto a cambiare atteggiamento: prima di cambiarlo mi sono sentito per anni a disagio e in colpa. Ora che l’elemosina la do, mi si pone un altro problema: il mendicante è una persona, potrei salutarlo con un po’ più di calore, con una maggiore solarità! Per un orso come me è una bella sfida, ma questo è il passo successivo su cui quella pressione mi sta conducendo con risultati alterni: a volte c’è soddisfazione per la performance attuata, altre mi rendo conto che si sarebbe potuto fare di più.

Ecco, quella pressione è la spinta della coscienza che costantemente ci conduce verso nuove scene dove viene a manifestarsi un sentire sempre più sottile, fondato sulle sfumature. Qui non conta l’immagine di noi, conta che nel cammino da ego ad amore muoviamo i nostri passi incerti e non possiamo non vederli: il senso d’inadeguatezza che ne consegue è profondamente educativo perché ci ricorda quanto siamo piccoli, incerti, incapaci di trasparenza, trattenuti da timidezze, ritrosie, meccaniche dell’identità insomma, e quanto possiamo andare ancora oltre affinché il moto del riconoscimento dell’altro si manifesti fluidamente, così come è nel bisogno dell’altro e nella naturalità delle cose.

Questo senso di colpa/inadeguatezza non ha una pesantezza particolare né è paralizzante: è un pungolo che non ci dà pace, che sempre ci induce al passo successivo. L’amore è esigente.
Siamo responsabili di entrambi gli stati: del groviglio interno all’identità e della tensione a trasformarci nel sentire[1]. Spetta a noi porvi rimedio, come?

Nel caso del groviglio essendo consapevoli che sorge dal confronto con l’immagine ideale e imparando a disconnettere il processo che ci sta condizionando; nel secondo caso, osservando chiaramente il limite di sentire, sapendo che questo cambierà la prossima volta, alla successiva esperienza, che non potrà non tenere conto di quanto visto e compreso nell’esperienza precedente.

C’è un “faremo meglio” che non sorge dalla volontà, da un costringersi dentro ad un comportamento coatto e, anche qui, dettato da quello che “dovrebbe essere” un sentire più ampio: c’è un affidarsi all’evidenza che ogni esperienza aggiunge un atomo di sentire e, alla prossima, la scena non può essere la stessa perché le precedenti hanno deposto atomi che cambiano la dotazione disponibile.

In entrambe le situazioni ciò che è importante è l’alleggerire. Che cosa? Il greve che la mente mette sull’accaduto, la drammatizzazione del limite manifestato, il rifiuto di sé. Che cosa significa accogliersi per quel che si è? Amare se stessi? Accettarsi?

[1] Non si afferma che siamo responsabili del sentire che non possediamo. Si sottolinea che il processo della trasformazione del sentire non può non interrogarci e non possiamo eluderlo.

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NB: il testo che compare in questi post in alcuni passaggi differisce sostanzialmente dal contenuto del libro, questo perché, nei dieci anni trascorsi, molte cose abbiamo approfondito e compreso meglio.
D’altra parte, oggi non riusciremmo a esprimerci con la semplicità di ieri mentre il nostro obbiettivo, nel riprendere questi contenuti, è proprio quello di dare a chi ci legge un testo semplice, per un approccio di base al Sentiero contemplativo.

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Catia Belacchi

Molto giara la distinzione tra iduediversi sensi di colpa.
Grazie.

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