Secondo voi, pensare è fare?
Un partecipante: In realtà lo è, ma non per noi come concetto.
Una voce: Voi agite, attuando un pensiero e dando espressione a un’emozione.
L’agire per voi significa implementare; può prodursi per uno stimolo che vi giunge dall’esterno, oppure internamente: ad esempio la voglia di abbracciare una persona.
Implementare significa dare consistenza a un pensiero, a un’emozione, ma anche a un vincolo, o a una sollecitazione. Dato che per voi l’agire si basa sull’implementare, e dato che il vostro implementare non lo costruite considerando le fratture, quando agite state creando una continuità. La pratica di implementare si basa sull’osservazione del prodotto della vostra azione, non solo quando siete soddisfatti del risultato, ma anche quando definite quell’azione inefficace, per poi cambiarla.
Tutto questo vi serve come difesa e come promozione di voi stessi. Quindi, qualunque tipo di relazione è caratterizzata dall’implementazione di atteggiamenti, di emozioni e di pensieri; e anche quando non li manifestate, state implementando un’autodifesa. Ad esempio, anche il vostro silenzio è un’azione implementante, perché quando temete un giudizio, vi dite che è meglio non esporsi. Cioè state agendo, implementando la conferma e la salvaguardia delle attività di difendervi, di proteggervi e di promuovervi.
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Pur difendendosi e promuovendosi, l’umano si trova spesso a fare i conti con i limiti del proprio operato. Lui può riadattare l’azione, o rivisitare se stesso per comprendere i propri scacchi. Sono tante le azioni che voi mettete in atto sulla base della vostra visione della vita come continuità; una continuità che ha bisogno di fare i conti con la regolazione, con l’adattamento e con le prevaricazioni da parte dell’altro, dalle quali vi difendete.
Ognuno di voi è dentro un’attività di tensione per mantenersi cauto e protetto, o per esporsi, sempre in base al proprio sistema d’ordine, dentro cui c’è un costante articolarsi nella regolazione. Il vostro sguardo è puntato sui tanti passi da fare per agire nel modo meno penalizzante possibile. C’è quindi una continua allerta alla quale fa seguito una possibile soluzione, non sempre efficace. È comunque un’operazione di continuità nell’adattarsi o nel regolarsi o nel modificarsi, ma anche nel cercare di modificare l’altro.
[…] Abbiamo detto che l’uomo non riesce a vivere l’azione senza finalità, cioè un’azione in sé, o semplice agire; lui la vive come attuazione e implementazione che lo facciano sentire adeguato. Nel corso della giornata può entrare in conflitto perché vorrebbe dare più tempo a se stesso oppure alle relazioni con gli umani ma anche con i non umani. Per lui vivere è davvero una continua esigenza di implementazione, sia che riguardi la sua attività di difesa: di protezione, di isolamento e di riservatezza, sia che riguardi il promuoversi nella sfera sociale.
Si può dire che l’umano utilizza l’implementare per dare continuità all’implementazione, in quanto mai può dirsi di aver completato il bisogno di implementazione. I normali vincoli del vivere quotidiano, per lui diventano dei “problemi”.
Secondo voi, vivere l’azione come implementazione che cosa mostra?
Un partecipante: Che l’azione è imperfetta.
Una voce: E quindi dove punterà lo sguardo?
Un partecipante: Su ciò che non c’è.
Una voce: Cioè non sull’azione, ma su quel che manca, in base al suo concetto di azione che “dovrebbe essere” completa. Voi definite ogni azione in base alla completezza; ma ben presto essa finisce per essere di nuovo incompleta, cioè non vi basta e va ridefinita, soprattutto se sorge un imprevisto.
Un partecipante: Quindi, l’azione non finisce mai lì.
Una voce: Mai è in sé, cioè conclusa. Non vi richiama la staticità, ma l’insoddisfazione e la rielaborazione, anche se inizialmente vi ha soddisfatti. La caratteristica che essa mantiene dentro di voi è quella di un’implementazione mai esaurita, sempre incompleta e riaggiustabile. Purtuttavia, viene salvaguardata l’immagine della vita come continuità, altrimenti non potreste ridefinirvi. Per farlo avete bisogno di mantenere una continuità con quello che c’era precedentemente e, per differenza, proseguire con un diverso tipo di azione.
Tratto da: Scomparire a se stessi (Il morire a se stessi è il morire dell’agente, Download libero)
Scomparire a se stessi, tutti i post del ciclo
Via della conoscenza. Questo è un viaggio a ritroso dentro noi stessi. Un viaggio in cui incontreremo delle strettoie create dalla via della Conoscenza e fatte di radicalità, di provocazioni, di negazioni, di paradossi e di metafore. L’agente siamo tutti noi che ci attribuiamo la paternità delle azioni che si compiono attraverso di noi, ma delle quali siamo i semplici portatori. Saranno messi in luce, e ci si presenteranno davanti, strada facendo, i nostri meccanismi, i nostri concetti e le nostre strutture mentali, e la voce che ci guiderà terrà la barra dritta, impedendoci di deviare.
La via della Conoscenza è una non-via e un non-insegnamento, perché è un contro-processo dei processi della mente. Non suggerisce pratiche e non dà mete, ma è la negazione delle pratiche e delle mete. Non porta alla conoscenza, ma svuota da tutte le conoscenze costruite sul cammino interiore intorno a un “io,” distinto, che cerca una propria evoluzione non capendo che tutto è già unità.
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