Non si può lottare contro il proprio essere e smettiamo di lottare quando abbiamo i rudimenti della conoscenza di noi: allora può iniziare il viaggio della disconnessione perché allora le questioni di base, le domande su alcuni nostri avviluppi, fantasmi, paure, reticenze, inadeguatezze, hanno trovato risposta almeno parziale, non importa che sia definitiva.
Avendo compiuto l’analisi di base del nostro essere e del nostro comportarci, quando ancora si presentano delle dinamiche possiamo lasciarle andare, disconnetterle. Se non c’è stata quell’analisi sulle cause dei nostri comportamenti, e sulle problematiche che denunciano un conflitto, non possiamo inoltrarci nella disconnessione: è sbagliata e pericolosa.
Se abbiamo già visto e analizzato l’origine e lo svolgersi delle nostre dinamiche più e più volte, allora la disconnessione è l’orizzonte in cui dovremo immergerci e lavorare tenacemente nel ventre di essa. Va comunque sottolineato che anche nel periodo di apprendistato, quando si analizza e si conosce la propria dinamica interna, la disconnessione può essere applicata, soprattutto per limitare, contenere, superare, gli eccessi della mente.
Paure, ossessioni, coazioni a ripetere possono essere attenuate e governate attraverso la disconnessione: la persona stanca di sé, di quel dato fantasma, reagisce e dice basta disconnettendo come può da quella pressione. È una pratica utile e anche molto produttiva ma non deve sostituire l’analisi sull’origine e lo sviluppo del disturbo o della difficoltà: i due debbono procedere assieme.
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Pensa al senso di colpa, alla sua funzione di insegnamento, di pungolo al guardarsi, al non rimuovere, al non nascondersi: entro un certo limite è una benedizione che noi si avverta quel pungolo; oltre quel limite, il senso di colpa diviene qualcosa che ci massacra e ci paralizza.
Il giusto comportamento è seguire l’impulso fornito dal senso di colpa, vedere che cosa abbiamo messo in atto, come avremmo potuto fare diversamente e poi fermarci e dire: “La prossima volta farò meglio”. Tutto quello che viene in più come dinamica autonoma della mente che produce pensiero ed emozione con il solo scopo di nutrirsi di dolore e inadeguatezza, questo, tutto, va disconnesso.
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NB: il testo che compare in questi post in alcuni passaggi differisce sostanzialmente dal contenuto del libro, questo perché, nei dieci anni trascorsi, molte cose abbiamo approfondito e compreso meglio.
D’altra parte, oggi non riusciremmo a esprimerci con la semplicità di ieri mentre il nostro obbiettivo, nel riprendere questi contenuti, è proprio quello di dare a chi ci legge un testo semplice, per un approccio di base al Sentiero contemplativo.
Dal post e dai commenti mi arrivano ulteriori utili chiarimenti sulla pratica della disconnessione, che è centrale…
E sulla presa d’atto che l’officina necessita di vigilanza, di paziente lavoro di osservazione.
Prima di iniziare un cammino di conoscenza di sé, non viene in mente di applicare la disconnessione, se mai si applica la rimozione o la negazione del problema.
Ma quando si è avviato il percorso del”conosci te stesso” disconnettere è l’unico modo per far tacere la mente e fare un’analisi onesta e il più veritiera possibile dei vissuti.
Sbagliato e pericoloso inoltrarsi nella disconnessione se non c’è stata analisi sulle origini della manifestazione e dell’eventuale conflitto.
Comprendo bene, lavoro sottile sulla manifestazione di me e la disconnessione dalle mie dinamiche.
Quindi potremmo dire che è possibile intraprendere un cammino spirituale/esistenziale solo dopo aver affrontato se stessi su un piano psicologico (psicoterapeutico o meno) ?
Direi che il cammino spirituale è anche, necessariamente, conoscenza di sé su tutti i piani dell’essere. Quella conoscenza generalmente inizia dalla sfera dell’identità, quella psicologica, e poi si estende.
Ma, chiaramente, accade anche che la persona entri in dinamiche spirituali intense e abbia bisogno di lavorare, in alcuni momenti, aspetti di sé che la ostacolano e che non sono stati adeguatamente trasformati.
Diciamo che la Via è una grande officina di sé, con il “conosci te stesso” al centro; ma credo che questo valga anche per chi non persegue una via, con la differenza che il discepolo affronta tutto questo con consapevolezza.
Pensa soltanto al superare l’ingombro di sé, questione spirituale di primo piano: quanto lavoro fondato sul “conosci te stesso” implica?
C’è sempre un sottile confine tra la disconnessione ed il “raccontarsela”.
Credo che non debba venireno la vigilanza sulla capacità della mente di rispondere al bisogno di darsi pace, anche quando sarebbe opportuno non farlo.
Quando questo, come giustamente dici, non eccede in un colpevolizzare senza soluzione.