Meditare è:
- – disporsi all’accadere;
- – lasciare;
- – accogliere l’accadere;
- – lasciarsi attraversare dall’accadere senza trattenere;
- – scoprire lo spazio, lo zero, l’essenziale;
- – vivere la perdita dell’essere, il ritorno dell’esserci e deliberatamente scegliere di tornare all’essere;
- – l’abbandono senza condizione.
Questa è la dinamica interna alla pratica del meditare, da questa esperienza sorge una prospettiva di vita, un’impronta, un condizionamento: la meditazione da fatto a sé diviene vita che è, atteggiamento meditativo che permea ogni aspetto dell’esistere.
L’atteggiamento del meditante diviene attitudine: il giardino della presenza da piccolo orto diviene l’intera vita.
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A- Disporsi all’accadere
Se mi osservo posso vedere dove è posta la consapevolezza, quanto l’identificazione è unilaterale, quanto sono in una compulsione, quanto in una coazione, quanto sono lontano dall’accadere perché stretto di sguardo: vedo quell’emozione che mi prende e mi sembra l’oceano mare; vedo quel pensiero che mi perseguita da giorni, mi sento prigioniero, invaso e non riesco a fare uno scatto di reni per lasciarlo lì.
Il disporsi inizia dal vedersi, è un gesto di una portata immensa, in un attimo, o in una sequenza di attimi, mi vedo e mi dico: “Cosa fai?!”.
È un voltarsi: un fermarsi, un girarsi, un portarsi fuori dal sentiero mentre tutti gli altri proseguono, consapevole che ti sei perso, disorientato eppure presente a te: “Che cosa sto facendo?!”.
Disporsi significa fermare gli automatismi, essere consapevoli di dove si è finiti, vivere la lontananza da sé, sapere di dover tornare: solo allora ci disponiamo.
“Dove sono finito? Debbo tornare.” Nella cavità toracica si apre uno spazio, un vuoto da colmare: mi posso disporre perché avverto in me una mancanza, un’amputazione.
Disporsi è aprirsi a una possibilità: è vedere una condizione e farsi concavi all’indagine di quell’assenza di sé.
Disporsi è il gesto del contadino che prepara il letto di semina, in autunno; è il gesto dell’operaio che dispone gli attrezzi sul banco di lavoro prima di iniziare; è il gesto dello studente che appoggia la tazza del caffè sul tavolo di fianco al libro.
Disporsi è quel tempo che prepara l’incontro con sé, il primo e l’ultimo degli incontri.
Il primo, perché finché non inizio a conoscere me, a vedere me, non ho ancora iniziato a vedere la vita; l’ultimo, perché quando il mio viaggio è finito e non sono più necessario a me stesso, sono divenuto inutile, contatto la mia inutilità come ultima consapevolezza.
Disporsi è uno sguardo, un gesto, un ritrovarsi, convertirsi, volgersi a sé: ora possiamo occuparci di noi, non del fare, non del divenire, ma dell’essere, perché dall’essere ci siamo persi e ne abbiamo consapevolezza.
Se non ci fossimo persi e non ne avessimo consapevolezza, non ci sarebbe tutto il processo che inizia con il disporsi e di cui adesso parleremo.
Il disporsi sorge dall’esigenza inderogabile di risiedere a casa.
Se non c’è consapevolezza della lontananza non c’è avvio del processo del ritorno: “Desidero tornare, mi dispongo, mi piego in me, su quel centro che ho perduto e che non frequento abbastanza”.
Disporsi è l’avvio del tornare, è la memoria del proprio vero essere, l’impulso che mai ci abbandona a risiedere nell’essenziale.
Questo testo è parte dei capitoli 3 e 4 del libro L’Essenziale; mentre li pubblichiamo ne verifichiamo anche il contenuto a 10 anni dalla loro estensione. A revisione completata, renderemo disponibile l’intero volume: qui i capitoli 1 e 2 già revisionati.
Disposti all’accadere, accogliere l’accadere, lasciare andare un pensiero molesto.
Grazie
Disporsi all’ascolto.
Stamani, un ticchettio ritmico, ha destato i miei pensieri.
La pioggia autunnale è tornata a dissetare la terra.