Ciò che adesso accade è l’unica cosa che esiste; ciò che sorge mi può piacere o no ma è la vita che sta accadendo, è il fatto determinante e non ho altra scelta che accoglierlo.
Non c’è libero arbitrio nella meditazione, non c’è scelta, non siamo nell’ambito dell’identità che sceglie e discerne. C’è una sola possibilità, accogliere: qualunque cosa sorga in sé, qualunque sorga nell’ambiente.
Non è rilevante che la mente protesti, che si ecciti, che si annoi, che giudichi: non c’è scelta, tutto questo accade e viene accolto come fisiologia del presente, sua intima natura.
Il rifiuto è parte del presente e della meditazione;
l’avversione è parte del presente;
la tenerezza è parte del presente.
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La meditazione è il teatro della vita dove tutto accade e tutto è accolto e l’umano non ha scelta: è la fine dell’umano così come lo abbiamo conosciuto ed è l’affacciarsi dell’umano nuovo che appoggia sul niente, sull’inconsistenza, sul limite e sulla dimenticanza del limite. Sul mistero. Sull’essere.
Dopo il lasciare, l’altra chiave, per l’altra porta, è l’accogliere, il farsi concavità, pozzanghera.
Solo un non-essere può accogliere, non opporre resistenza.
Solo una finestra aperta mette in relazione la stanza con il fuori e supera la distinzione dentro-fuori. Non-stanza, non-fuori, non-dentro, non-relazione dentro-fuori.
Accogliere richiede che l’accogliente sia ridotto ai minimi termini; colui che accoglie non si cura di sé e allora può risaltare ciò che accade, che viene e che va, che sorge e scompare, che impatta e scuote e rilascia la presa.
Scompare l’accogliente e viene sostituito da una canna mossa dalla brezza, dal vento, dalla tempesta; immobile nella quiete e nella tempesta. Un paradosso: mossa nei corpi, immobile nell’essere.
Non io accolgo ma l’accoglienza accoglie.
Il flusso dei pensieri viene e va; le emozioni pulsano, le azioni accadono: è naturale, questa è la vita, questo viene accolto.
Non il mio pensiero accade, il pensiero accade.
Non la mia emozione accade, l’emozione accade.
Non l’azione mia accade, l’azione accade.
La vita accade in mille modi, tutto viene visto, lasciato giungere, accolto dalla finestra aperta, lasciato invadere il campo della stanza, lasciato che sia.
Nessuna opposizione, nessuna resistenza.
Stare.
Niente da perseguire.
Lasciare che sia.
Ma anche l’opposto, la reazione subitanea, immediata, pronta, priva della mediazione del pensiero, gesto che sorge dal sentire e trova immediata attuazione.
Non c’è aspetto di me che in meditazione non affiori, come nella vita la presenza dell’altro mi mette continuamente a nudo, così nello stare e nel silenzio della meditazione il film di ciò che sono, o credo di essere, scorre inesorabile.
Se la meditazione non è la ricerca di una tossicità trascendentale, il perseguimento di stati, la continuazione del circo delle illusioni, perché può essere anche questo, ma se non lo è, se è lasciata operare presenta non il circo del vorrei ma semplicemente l’essere.
Nel “detendersi” della mente affiorano come lampi i passaggi complessi del nostro esistere, i nodi esistenziali, le paure, le inadeguatezze, la tensione verso, il processo esistenziale, le dinamiche incarnative. Flash dell’interiore complesso.
La meditazione come luogo del conosci te stesso, dove ineluttabile avanza quel te stesso e scorre davanti alla consapevolezza: grave sarebbe fuggirlo.
Certo, la meditazione, non prevedendo la relazione con l’altro, non può produrre in maniera diretta cambiamento: non si cambia perché ci si vede e basta, si cambia perché ci si vede e si opera, al passo successivo, in una maniera più conforme al superamento del limite in questione.
Nel tempo della meditazione ci vediamo e prendiamo atto, ma l’officina è differita, il corpo a corpo, quella prossimità che non dà scampo, è rimandato.
Ciò non toglie che la meditazione prepara il cambiamento e non di rado in quello stare si illuminano spazi di consapevolezza, aree buie vengono esposte, meccanismi si svelano nella loro origine e nel loro dispiegarsi. La meditazione prepara e dischiude, la vita di relazione conduce a compimento ogni cosa.
Qui parlo della esperienza della meditazione matura, quella che si può sperimentare dopo lunghi anni di pratica; non parlo invece della esperienza del neofita o dell’entusiasta che è altra cosa.
L’accogliere è centrale: da qualunque livello di consapevolezza giunga ciò che ci attraversa, questo va accolto senza condizioni perché parla di noi, della nostra vita, di quello che la nostra vita non è ma tende a essere, dell’alterità che bussa, del semplice essere.
Accogliere è non muoversi, rimanere saldi in posizione: le immagini di noi affiorano impietose, inclementi, pressanti e noi non ci muoviamo. Vorremmo, forse, nascondere il volto dietro alle mani ma restiamo immobili come pietre e lasciamo che accada sapendo che nulla è più terapeutico per noi di quel vederci, nulla ci può sanare di più perché la consapevolezza è il sale della vita interiore.
Fermi come pietre assistiamo allo spettacolo dell’essere umani svelati nella carne nuda: non muoversi è l’imperativo, metafora del non ribellarsi, del non opporsi ma dell’assecondare, del lasciare che sia.
Sia quel che è, non mi opporrò.
Fino in fondo, non fuggirò da me stesso.
Non chiuderò gli occhi, non distoglierò lo sguardo, non mi nasconderò a me stesso.
Immobile starò e lascerò che le immagini scorrano.[1]
Dopo porterò tutto questo nella vita e lì verrò trasformato.
[1] Qui abbiamo parlato dell’esperienza della meditazione che uma conosce, lo zazen, la meditazione propria del buddismo zen: immobili davanti a un muro bianco. Ci sono molte forme e pratiche di meditazione, alcune meno svelanti e forse meno radicali, ma di quelle non sappiamo dire.
Questo testo è parte dei capitoli 3 e 4 del libro L’Essenziale; mentre li pubblichiamo ne verifichiamo anche il contenuto a 10 anni dalla loro estensione. A revisione completata, renderemo disponibile l’intero volume: qui i capitoli 1 e 2 già revisionati.
Grazie.