È un tema questo che mi insegue da un trentennio, la rigidità di funzione tra l’azione del maestro e la reazione del discepolo: pare non si possa uscire da questa cristallizzazione ma essa paralizza il flusso vibratorio e creativo.
Un assurdo, in realtà. Nulla può il maestro senza la disposizione attiva del discepolo, e viceversa. Ma quando il discepolo non chiede, non espone in modo attivo la sua vita e ogni volta spetta al maestro attivarlo, stimolarlo, condurlo a una più alta consapevolezza senza che questa sia frutto di una dinamica intensa tra i due?
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Il cammino di comprensione è figlio di una relazione e questa sorge da un bisogno esistenziale e da una domanda che si ha il coraggio di proferire: se si delega ad altri, in questo caso al maestro, di far luce su di noi senza che la nostra inquietudine sia il primo e principale stimolo, allora si è imboccata una via distorta.
Il maestro ne uscirà depauperato delle sue forze e della sua funzione, il discepolo avrà preso una piega radicalmente sbagliata e improduttiva.
Cosa significa esporre in modo attivo la propria vita? Questo è forse il nodo dove siamo inceppati? Forse ci perdiamo nel discutere di concetti elevati senza transitare per le emozioni, le sensazioni. Sappiamo codificare emozioni e sensazioni? Lo svelamento di noi passa tramite un linguaggio che forse non conosciamo.
Comprendo perfettamente.
È che nonostante la disponibilità indiscussa di ciascuno, il divario di sentire tra discepoli e maestro è innegabile e i discepoli sono ancora troppo immersi nei fatti del divenire.
C’è comunque da dire che, quello delle domande è un tema vecchio, mai risolto neanche quando i temi affrontati erano più semplici.