Il discorso di Dogen prende spunto dalla citazione di un verso del Sutra del Nirvana (Mahaparinirvana sutra cap.27), antica scrittura del buddismo. Questo verso è l’espressione della fede nell’universalità della natura buddica, la quale è alla base della visione Mahayana.
Qui vediamo subito in azione la comprensione e la metodologia di Dogen. A rischio di rendere un po’ pesante la spiegazione, vale la pena, in questo caso, di addentrarci un momento nella lettura del testo originale, per mostrare come Dogen lo affronta e lo presenta. Il testo cinese, tradotto dal sanscrito, recita: «Issai shujo, shitsu u bussho, nyorai jo ju, mu u hen yaku»:
Issai significa tutto, ogni cosa;
shu vuol dire molteplicità, totalità
jo significa vivere: shujo, come composto, è normalmente usato per indicare gli esseri viventi;
shitsu vuol dire tutto, ogni cosa, simile al precedente issai;
u significa tanto essere che avere;
di bussho abbiamo già detto;
nyorai è uno degli appellativi di Budda, che indica perfezione;
jo significa durata, continuità, perennità;
ju vuol dire risiedere;
mu significa non, niente;
u è lo stesso ideogramma del precedente u – essere, avere;
hen yaku vuol dire mutamento, mutevolezza, impermanenza.
La lettura che abitualmente se ne dà, in italiano suona così: «La totalità (issai) degli esseri viventi (shujo), tutti (shitsu) hanno (u) la natura di budda (bussho); il Perfetto (nyorai) permane sempre (jo ju), non (mu) ha (u) mutamento (hen yaku)».*
Doghen invece, legge: «Il tutto (issai) è il tutto che vive (shujo), ogni cosa (shitsu) che è (u) è natura autentica (bussho). Ciò che è perfetto (nyorai) risiede perenne (jo ju), è niente (mu), è ente (u), è mutevolezza (hen yaku)».
La sua chiave di lettura è in quell’ideogramma u, inteso come essere e non come avere: tutto, ogni cosa è natura autentica. La natura autentica non è qualcosa che si ha, un bene che si possiede: è intrinseca all’essere, è l’essere che esprime ed esaurisce totalmente la sua essenza di essere.
Se applichiamo la categoria dell’avere alla natura autentica, ne facciamo un oggetto, un qualche cosa. Ma allora, che bisogno c’è di dire natura autentica? Non basta dire essere, senza bisogno di ulteriori specificazioni? Oppure c’è un essere che è più vero essere del semplice essere? C’è una natura autentica e una natura inautentica, una natura buddica e una non buddica?
Come vediamo Dogen, leggendo in quel modo il verso che proviene dalla voce di Budda, ci proietta immediatamente nel cuore del problema: e lo sentiamo subito come problema personale e universale insieme. Perché ciascuno di noi, a un certo punto, più o meno coscientemente, con maggior o minore intensità, riflette sul senso dell’essere, e si chiede se il suo essere sia un essere per qualcosa o un essere per se stesso.
E procedendo nell’indagine, che è poi la vita stessa, si chiede se quella dicotomia, fra essere per ed essere in sé, sia veramente una dicotomia o non piuttosto un’identità che si sdoppia, l’essere che si specchia nell’essere. La visione biblica cui il cristianesimo attinge, attribuisce a Dio la qualità dell’essere in sé e all’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, a suo specchio, la qualità di essere per.
Quell’essere per che in Cristo, il Figliol dell’uomo, ritrova il nome originario di Io sono, divenendo via verità vita universale: essere per divenire ciò che realmente è. La visione buddista cui lo Zen attinge riconosce in ogni essere la qualità dell’essere in sé come non altro dall’essere per: essere per essere l’essere che è.
Dire natura autentica non aggiunge nulla, ma serve a ricordarci qual è la vera e unica natura dell’essere, di ogni essere. Ogni essere che vive, vive tutto l’essere, e perciò shujo non vuol dire solo esseri viventi, ma che tutto ciò che vive è l’essere, è la natura autentica, è il tutto che vive.
La vera rivoluzione che la comprensione di Dogen opera sta qui, nella lettura dei primi quattro ideogrammi, issai shujo, che diventano una frase a sé, con un suo senso compiuto, e non soltanto il soggetto della restante proposizione. Il tutto è il tutto che vive: questo è il vero significato di tutti gli esseri viventi. Io comprendo l’espressione il tutto è il tutto che vive come l’equivalente buddista, del tetragramma ebraico dell’Esodo, Jahveh, Io sono colui che è: questo dice l’essere come persona, come io assoluto (Dio), quella dice l’essere come totalità. Ma dello stesso essere si tratta.
L’essere così inteso nella sua pienezza non resta intrappolato nelle dicotomie di essere o non essere, perennità o impermanenza, perché non è un essere relativo a qualcos’altro da sé: questo è la sua perfezione. Ha in se stesso la sua ragion d’essere, il suo fondamento, la sua testimonianza: quindi è ente. È l’essere libero dal bisogno di dimostrare che è: quindi è non ente, niente. È perenne, perché il tempo non lo altera. È mutevole, perché si estrinseca nel tempo. Ciò che è perfetto risiede perenne, è niente, è ente, è mutevolezza.
Il significato di fondo delle parole di Budda è indicato dalla domanda che mette in movimento la ricerca della verità: «Questo che cosa è che viene così?». La frase iniziale, nel momento in cui appare risolvere la problematica fondamentale, quella dell’essere, prende corpo non in una risposta ma in una domanda. Ci sono domande il cui senso si esaurisce in una risposta, e ci sono domande che mettono in moto un modo d’essere, e questa è la loro risposta. Il verso iniziale è risolutivo perché apre la via, e questa è la soluzione.
Chiamo io l’essere che è la mia pelle, carne, ossa, midollo; chiamo tu l’essere che è la tua pelle, carne, ossa, midollo. Ma la natura autentica non ha nulla cui dare dell’io e del tu, è fino in fondo se stessa essendo ogni pelle, carne, ossa, midollo. (Non so se Jiso e Dogen dicono la stessa cosa)
[→uma] *S. Oriani, lavorando sulla traduzione inglese di K. Nishiyama, così traduce in italiano: Il Buddha Śākyamuni disse: “Tutti gli esseri senzienti possiedono integralmente la natura di Buddha. Il Tathāgata costantemente dimora in essi, non soggetto a mutamento.” Dogen Zenji, Shobogenzo, l’occhio e il tesoro della vera legge. Ed. Pisani, 2006
“Gli esseri viventi sono tutti di natura buddica. Il Tathagata risiede continuamente e non è soggetto a cambiamenti”. Così traduce l’edizione dello Shobogenzo curata da Kazuaki Tanahashi, SHAMBHALA, BOSTON E LONDRA – 2012 [/uma]
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
“Ma la natura autentica non ha nulla cui dare dell’io e del tu, è fino in fondo se stessa essendo ogni pelle, carne, ossa, midollo”
Come a dire 1+1=3
Commento importante. Concordo con Catia riguardo alla traduzione di Forzani che anche a me appare più appropriata.
Trovo più appropriata la traduzione di Doghen che fa Forzani: “Ogni cosa che è, è natura autentica (di Budda), piuttosto che: tutti gli esseri senzienti possiedono la natura autentica di Budda” “(Oriali), poichè giustamente la natura autentica non si possiede come un bene, ma è intrinseca all’Essere.