Di seguito alcune considerazioni di Leonardo, monaco del Sentiero contemplativo.
Afferma Dogen:“I Buddha e i patriarchi sulla base della grande illuminazione sicuramente si sforzano al massimo sulla Via e praticano…”
Commenta uma: “Nel Sentiero diremmo che non c’è relazione tra sforzo e realizzazione essendo la realizzazione in relazione con il compreso, con la strutturazione del sentire dunque, e il sentire si struttura per esperienza non si conquista con la volontà sebbene questa intervenga nell’esperienza. Si comprende di più se c’è forte dedizione? Certamente è un fattore agevolante. La pratica dello zazen e della Via porterà alla realizzazione?”
Non c’è nesso causale, né deve esserci tra pratica e realizzazione. La realizzazione (esperienza e sentire unitari, ndr) giunge per sentire conseguito e dunque attraverso le esperienze: siamo nella logica dell’apprendere e del divenire. La pratica è disconnessione. Disconnessione dal circolo vibratorio dell’evoluzione, apertura alla dimensione dell’Essere, per questo la pratica non può per definizione produrre esperienza.
Dunque cosa riguardo lo sforzo di cui parla Dogen? Io credo che si riferisca all’attivarsi della volontà conseguente a comprensioni acquisite per cui la pratica (qui Leonardo non si riferisce solo allo zazen ma all’insieme dello sperimentare quotidiano, ndr) si rivela essere essenziale per approfondire quelle comprensioni raggiunte o in procinto di esserlo.
Quella volontà/sforzo ci fa perseverare nella pratica perché sentiamo che non potrebbe essere diversamente: dimensione propria di un determinato sentire. Ci poniamo davanti al muro perché non c’è nulla di più naturale da fare, come per il contadino è naturale pulire e arrotare gli attrezzi quando fuori piove.
A seguire alcune considerazioni di uma.
Qual è la nostra pratica nel Sentiero contemplativo?
– lo zazen del mattino;
– le letture quotidiane, lo studio;
– il confronto con sorelle e fratelli, quotidiano e ripetuto;
– gli incontri mensili;
– gli intensivi trimestrali.
Siamo una via contemplativa, quale atteggiamento di fondo sviluppiamo?
La consapevolezza simultanea di Essere e divenire: tutto È, tutto diviene.
Se contempli il “tutto È”, il divenire – con le sue logiche e leggi – si ferma.
Questo non significa che le scene non si susseguono più, ma che non c’è identificazione, non c’è un soggetto che afferma: “Questo è mio, mi riguarda in quanto io”.
Il divenire scorre ma non viene sentito come teatro attivo di una soggettività: viene sentito e osservato, contemplato, come Ciò-che-È, come fatto che sorge e scompare: in questo senso il divenire si ferma, perché viene colto non tanto nel suo essere effimero – comunque percepito e tenuto in conto – ma nella sua Essenza.
Colui/ei che pratica/vive, sente l’accadere e di questo coglie l’Essenza senza tempo: un passo contemplato, una foglia contemplata, una reazione dell’altro contemplata, un moto interiore proprio contemplato, non divengono, sono.
Sono senza tempo, senza un’origine e senza una finalità, dunque non hanno senso né scopo.
Non sono generati da questo, non conducono a quello: sono e basta.
È la contemplazione del Ciò-che-È.
C’è applicazione della volontà in questa nostra disposizione? C’è sforzo?
Se ci fosse volitività non ci sarebbe contemplazione ma un soggetto con una pratica: la contemplazione è, per definizione, assenza di soggetto.
Non c’è un soggetto che contempla, né c’è un soggetto che siede in zazen: c’è il contemplare e il sedere liberati dal protagonismo soggettivo perché il piano su cui avvengono contemplazione e zazen non è quello della soggettività, dell’io faccio questo.
La consapevolezza si sposta dal terreno proprio del divenire dove io faccio questo, al terreno del sentire più vasto dove questo accade.
Il divenire è un piano di consapevolezza con i suoi attori e le sue leggi, il sentire di cui parliamo è un altro piano di consapevolezza, senza attori e con altre leggi.
Nel divenire tutto ha un senso e uno scopo e all’umano pare che tutto sia mosso dalla sua volontà: in effetti tutto è creato da un sentire rivolto al divenire, ogni scena di ognuno, sempre.
Nell’Essere – un sentire non rivolto al divenire – la realtà si frantuma e non è più interna alla logica duale e della causa-effetto: ogni scena/fatto è a se stante e in quanto tale sentita.
Notate che parlo di sentire una scena, non di percepirla, questo perché il sentire e il percepire sono i due piani che prima ho descritto: sentire l’Essere, percepire il divenire.
Sentire l’Essere mentre il divenire scorre: fratturare il film, separare fotogramma da fotogramma: ma nel sentire, non nella percezione.
Il mondo smette di scorrere perché scompare il soggetto che scorre col mondo e si afferma ciò che precede lo scorrere e lo contiene: l’Essere/sentire.
E la volontà?
Questa pratica di vita (contemplazione, zazen, divenire) intreccia senza fine i due piani di Essere e divenire: la perdita della soggettività convive con la soggettività, lo sguardo contemplante vede il soggetto muoversi sul palcoscenico.
La volontà, nel divenire, altro non è che la forza del sentire che crea il reale duale di ogni momento e lo conduce a coerenza finalizzato a conseguire sentire più ampio: ogni grado di sentire di un dato grado si muove verso un grado più ampio, questa è la legge che governa il Cosmo dal sentire originato.
La volontà, nell’Essere, è il sentire-che-È.
Voi direte: espressione fumosa. Ma non è così, chi sperimenta il sentire non condizionato, lo sente come Essenza vitale e pregante: la forza dinamica che nel divenire qualifica la volontà, qui è forza-che-è, non è forza dinamica, è Essenza pregnante.
Per tornare a Dogen, il monaco vive la sua quotidianità immerso in Essere che si fa divenire, e in divenire che svela Essere: ci sono volontà come forza dinamica e volontà come Essenza pregante, e convivono.
C’è l’esercizio della volontà di una soggettività e c’è lo scomparire della soggettività e della sua volontà.
Cos’è la realizzazione (sentire unitario) se non la fine di questa alternanza e l’affermarsi di Essere con la soggettività al margine? (Perché finché c’è incarnazione comunque una traccia di soggettività permane)
E cos’è tutta la Via se non un imporsi di Essere fino al suo dilagare?
Ma quando dilaga? A caso dilaga? In virtù delle cosiddette illuminazioni subitanee?
Così, di botto, a caso, si manifesta l’Essere unitario e ultimo?
O l’Essere, che È da sempre e per sempre, sorge alla consapevolezza piena quando l’illusoria soggettività è oramai compromessa? Quando più non la sentiamo necessaria e Altro si afferma.
Ecco allora che Essere e divenire si mostrano nella loro unitarietà e inscindibilità.
Si può rompere il gioco tra Essere e divenire e penetrare Essere quando divenire è ancora acerbo (l’illuminazione immediata)? No, non si può: quella che chiamiamo illuminazione immediata altro non è che l’emerge della punta dell’iceberg, ammasso che si è creato nelle vite ripetute.
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Molto chiaro e una sintesi efficace
Il post fa chiarezza su diversi punti, che riguardano la nostra pratica e lo scritto di Doghen. Lo rileggerò stampandolo.
“La volontà, nel divenire, altro non è che la forza del sentire che crea il reale duale di ogni momento e lo conduce a coerenza finalizzato a conseguire sentire più ampio: ogni grado di sentire di un dato grado si muove verso un grado più ampio, questa è la legge che governa il Cosmo dal sentire originato.”
Queste parole chiariscono ulteriormente il legame tra volontà e sentire.
Mi pare chiaro, da sedimentare comunque… grazie!
“Il monaco vive la sua quotidianità immerso in Essere che si fa divenire, e in divenire che svela Essere: ci sono volontà come forza dinamica e volontà come Essenza pregante, e convivono.
C’è l’esercizio della volontà di una soggettività e c’è lo scomparire della soggettività e della sua volontà.”
Questo è. Se vogliamo la vita di un monaco può essere racchiusa in questo movimento: “La consapevolezza si sposta dal terreno proprio del divenire dove io faccio questo, al terreno del sentire più vasto dove questo accade.”