Fonti: Il cammino religioso, Bendowa, Stella del mattino. Tollini, Pratica e illuminazione nello Shobogenzo, Mediterranee.
Questo materiale è finalizzato alla formazione dei monaci del Sentiero contemplativo e non ha altra finalità. Il curatore interviene per interpretare Dogen alla luce delle comprensioni e interpretazioni proprie del Sentiero e non è mosso da alcuna intenzione esegetica.
Bendōwa è un’opera del maestro Dōgen1 scritta al suo ritorno in patria (1227, ndr) dalla Cina, nel 1231, quando aveva trentuno anni, con il proposito di favorire la diffusione dello zazen in Giappone. È, quindi, un testo di predicazione missionaria e solo successivamente fu considerato parte dello Shōbōgenzō2 la cui stesura – iniziata successivamente – e continua revisione occupò Dōgen per il resto della vita. In quanto prima opera di predicazione è redatta in uno stile semplice se paragonato ad altri scritti di Dōgen. Nella sua qualità di libro iniziale, però, contiene i principi fondamentali della visione dello zazen di Dōgen zenji3, e – per questo – non è sempre di facile comprensione.
Questa che presentiamo è la traduzione in italiano della versione in giapponese moderno da me redatta il più fedelmente possibile al testo originale scritto circa 760 anni fa.
- Eihei Dōgen (1200-1253), monaco buddista giapponese, entra giovanissimo nell’ordine monastico mosso da uno spirito di ricerca che continuerà ad animarlo per tutta la vita. Nel 1223 intraprende, insieme al suo mentore Myōzen, un viaggio di studio in Cina, dove avviene l’incontro con Rujing (giap. Nyōjō; 1162-1228) in cui riconosce il proprio maestro e tramite il quale scopre la centralità dello zazen nell’esperienza della via indicata da Buddha, elemento che rimane costante nel suo insegnamento.
Rientrato in Giappone nel 1227 dà inizio a esperienze di vita monastica comunitaria che porteranno nel 1244 alla fondazione del monastero Daibutsuji (poi rinominato Eiheiji) e a un’intensa produzione letteraria.
Nel 1249 il monastero Eiheiji riceve in dono una versione completa del Daizōkyō, l’intero canone buddista in cinese, il cui studio è probabilmente all’origine di una revisione generale dello Shōbōgenzō (cfr. n. seguente). All’inizio del secolo scorso Dōgen viene riscoperto in ambito laico, in particolare da alcuni filosofi della scuola di Kyoto, che lo presentano come il pensatore che unisce in sé ed esprime l’essenza del buddismo e della spiritualità del Giappone. La sovrapposizione di due proiezioni, agiografico clericale e filosofico nazionalista, ha creato un’immagine iconica di Dōgen che getta più ombre che luce sulla possibilità di comprendere il valore del suo insegnamento. - Shōbōgenzō è la denominazione che raggruppa manoscritti e, soprattutto, discorsi di Dōgen trascritti perlopiù dal discepolo Ejō. I quattro logogrammi che compongono l’espressione Shōbōgenzō, esprimono ognuno più concetti. Varie le traduzioni possibili per riassumere le combinazioni di questi significati: L’occhio e il tesoro del vero dharma, Il tesoro della visione del vero dharma, Il tesoro dell’occhio del vero insegnamento, Il deposito della visione delle cose come sono in realtà.
Lo Shōbōgenzō di Dōgen è un progetto di scrittura che raccoglie numerosi “fascicoli” (maki o kan – lett. rotoli), testi autonomi e parti correlate di un’unica opera. Nel corso dei secoli ne sono state redatte numerose differenti edizioni, composte da un numero variabile di fascicoli. Quelle più utilizzate per traduzioni in lingue occidentali sono l’edizione del 1690 in 95 fascicoli, quella in 75 fascicoli (che non comprende Bendōwa, considerato un testo a sé) commentata da due discepoli di Dōgen fra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, e quella in 12 fascicoli, probabilmente composta da Dōgen nell’ultimo anno di vita, inizio di una revisione dell’opera che avrebbe dovuto constare di cento fascicoli. Esistono oggi traduzioni italiane di alcuni fascicoli. La Stella del Mattino ha curato, oltre alla presente, l’edizione di due di essi, Genjōkōan e Busshō per le Edizioni Dehoniane (ormai fuori catalogo) e la traduzione a uso interno di alcuni altri, reperibili in rete presso http://www.lastelladelmattino.org/ricerca- testi-tradotti/sbgz-in-it. - Zenji è la lettura giapponese di un termine onorifico di derivazione cinese (chanshi in quella lingua) che significa “insegnante di (za)zen”.
Voglio spiegare che cosa si intende, in questo caso, dicendo versione in giapponese moderno fedele all’originale.
All’inizio di Bendōwa, troviamo la parola hotoke (buddha). Questa parola è la stessa oggi come 760 anni fa. Se usassimo il termine “buddha”, così com’è anche nella versione in giapponese moderno, adducendo a motivo il fatto che si tratta, ormai, di una parola di uso comune, faremmo una tautologia, come dire che A è A. In Giappone, dove il senso di “buddha” si è formato attraverso i secoli nella società e nella cultura, può essere possibile che, in alcuni casi, anche lasciando la parola inalterata nella traduzione in lingua moderna, si attinga ai molteplici significati in essa impliciti. Invece, là dove non vi sia questa base, il termine “buddha” non è altro che un simbolo. Da un simbolo preso in quanto tale – ovvero separato dal suo significato* – anche se utilizzato un milione di volte, non può nascere un significato vivo.
Rileggo Bendowa dopo più di trenta anni e mi sorgono le stesse perplessità di allora di fronte all’approccio che Watanabe ha seguito nella traduzione: il testo che ne risulta appare a volte indiscutibilmente chiarificato, altre offuscato. Là dove egli vuole portare luce – con un nobilissimo intento – accade che porti complicazione, ma il lettore vedrà da sé e magari scoprirà che è solo un limite mio.
*Comprendo perfettamente l’intenzione di Watanabe, mi rimane tuttavia difficile comprendere un simbolo separato dal suo significato essendo un simbolo portatore, aspetto e sintesi di un dato senso/significato/sentire. In origine, il simbolo è un aggregato di sentire.
Che poi quel significato/sentire sia complesso e composito, è evidente, vale per tutti i simboli: tutto nel cosmo è simbolo di sentire ed è attraverso la comunicazione simbolica che avviene la trasmissione di ogni dato e legge, e sempre un simbolo contiene un fascio di vibrazioni/informazioni.
Il termine Buddha, cui Watanabe fa riferimento, è un fascio di vibrazioni/informazioni soggette a processi interiori di decodifica tanto più complessi quanto più evoluto è il sentire di colui/ei che recepisce o usa il termine.
Se tutti noi dovessimo esprimerci traducendo e decodificando pedissequamente ogni volta i simboli, le nostre comunicazioni diverrebbero un incubo: un simbolo è sentito ora per quel fascio di vibrazioni/informazioni, ora per quell’altro fascio.
La decodifica a priori del simbolo/sentire in un concetto lo sottrae alla corretta percezione e lo confina su binari rigidi prefigurati dal traduttore: ogni autore si esprime attraverso simboli e ogni fruitore ha il diritto di intercettare il sentire dell’autore attraverso il simbolo che egli ha usato: trovo che la barriera della lingua sia abbastanza relativa, il discrimine sta nella comprensione del sentire dell’autore che il traduttore ha realizzato in sé.
Nella mia esperienza con Dogen non è certo il termine Buddha che mi confonde quanto il fatto che, frequentemente, i traduttori hanno scarsa comprensione di quello di cui lui tratta: da questo deficit di comprensione del traduttore fioriscono poi frasi incomprensibili e improbabili.
Nello studio di Bendowa userò due traduzioni, quella di Watanabe e quella di Tollini.
Ecco perché, nella prospettiva di una traduzione italiana, ho reso la parola “buddha” con l’espressione “persona che ha aperto chiaramente gli occhi al vero modo di essere del tutto”. “Buddha”, infatti, non è la persona giunta a realizzare un concetto, né un’idea prestabilita, posta in partenza come meta e definita appunto “buddha”, ma è il termine rispettoso con cui si definisce la persona che, aperti gli occhi alla realtà vera, vive in maniera fedele e conseguente a quella stessa realtà cui ha aperto gli occhi. Insomma, abbiamo tradotto mettendo in evidenza un aspetto che è quello del particolare significato che diamo qui alla parola “buddha”: il significato al quale noi siamo intimamente legati in quanto “persone che si dedicano concretamente a una condotta di vita”, nel momento cioè in cui decidiamo di mettere effettivamente in pratica l’insegnamento di Śākyamuni.
Inoltre l’espressione che nell’originale è jijuyūzanmai resa con la frase “il sé vive il sé originale in modo autentico4” è conforme al medesimo indirizzo. Comunque dato che nel limite del possibile non ho apportato ritocchi all’originale, vi sono alcuni punti di difficile comprensione.
4 Questa espressione indica il centro della pratica, quello che nel buddismo antico è espresso con le parole “affidare sé stesso a sé stesso”, cfr. Dhammapada 160.
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“Se tutti noi dovessimo esprimerci traducendo e decodificando pedissequamente ogni volta i simboli, le nostre comunicazioni diverrebbero un incubo: un simbolo è sentito ora per quel fascio di vibrazioni/informazioni, ora per quell’altro fascio.”
Condivido. Ma evidentemente Watanabe vuole mettere in guardia rispetto alla facilità con cui si parla dell’attributo di “buddha” come se fosse un’esperienza a molti familiare, quando in verità è qualcosa di molto complesso, in cui è facile prendere una cantonata.
Quante volte parliamo della vissuta come rappresentazione più che come un sentire chiaro e ben solido?
Se Watanabe non avesse dato il suo significato della parola Buddha, il nostro sentire sarebbe stato sufficiente a decodificare i significati simbolici insiti in questo nome?
Se ho capito bene.
Letture non facili che diventano più accessibili grazie alla tua interpretazione….da qui ancora grazie.
Rendere disponibili questi contenuti è cosa preziosa. Grazie,