Fonti: Il cammino religioso, Bendowa, Stella del mattino. Tollini, Pratica e illuminazione nello Shobogenzo, Mediterranee.
Questo materiale è finalizzato alla formazione dei monaci del Sentiero contemplativo e non ha altra finalità. Il curatore interviene per interpretare Dogen alla luce delle comprensioni e interpretazioni proprie del Sentiero e non è mosso da alcuna intenzione esegetica.
In Bendōwa troviamo espressioni come “persona che ha aperto gli occhi alla realtà com’è”, “sé originale”, “aspetto autentico”: vorrei introdurre la lettura di questo scritto precisando il significato generale di alcune di queste espressioni che rappresentano il cuore stesso dell’opera.
Śākyamuni è persona storicamente esistita, vissuta in India circa 400 anni prima di Cristo. Lasciata all’età di ventinove anni la propria casa, sperimentò varie forme di ascesi; infine, facendo zazen comprese il vero modo di essere di tutto ciò che esiste e risolse il problema centrale della propria vita. Dall’età di trentacinque anni, per quarantacinque anni di seguito, predicò spiegando quel vero modo di essere che aveva pienamente acquisito; morì infine all’età di ottant’anni.
Comprese facendo zazen? O emerse una comprensione che era già acquisita e in buona parte strutturata? Oppure ciò che lui sperimentò come illuminazione/realizzazione non fu altro che l’emergere di una consapevolezza unitaria di una comprensione che esiste da sempre nell’Essere e che era maturata nel tempo del divenire? Non è questione di poco conto: si comprende facendo zazen? Dubito fortemente. Si comprende vivendo e sperimentando.
Si dice che in quel tempo ci fossero sessantadue scuole religiose che affermavano la possibilità di comprendere il significato e il valore della vita tramite pratiche ascetiche, quali strapparsi i capelli di testa uno a uno, o stare sempre ritti su di una sola gamba come fanno le galline quando dormono. Completamente estranea a questo tipo di insegnamento, la predicazione di Śākyamuni oggi viene chiamata con il termine generale di “buddismo”.
Il buddismo, con il passare del tempo, è stato ordinato in senso teorico e si è sviluppato in numerose scuole, però il suo fondamento non è mutato e, trasmesso dall’India in Cina e poi da qui in Giappone, è giunto fino ai nostri giorni. Voglio ora spiegare, in breve, quale sia il fondamento dell’insegnamento di Śākyamuni.
Comunemente noi pensiamo che tutto ciò che esiste, esista oggettivamente, al di là della soggettività che chiamiamo “io”. Per esempio riteniamo che questo mondo comprendente tutto ciò che esiste e che noi chiamiamo “ventesimo secolo”, sia preesistente e tutt’altro da questo “io”; crediamo che “io sono nato” voglia dire che “io” ho fatto ingresso in questo mondo, in questa società; e ancora pensiamo che “io muoio” voglia dire uscire dalla scena di questo mondo. Noi, senza alcun fondamento, abitualmente pensiamo in questo modo. L’insegnamento di Śākyamuni inizia proprio dal mutamento di questo modo di pensare.
Se ora io, accanto a un’altra persona, sto guardando il panorama con i suoi monti, fiumi e terra, penso che, sia lui che io, stiamo osservando gli stessi monti, gli stessi fiumi, la stessa terra: eppure in realtà non è così. Io vedo dal mio angolo visuale, lui dal suo, ciascuno in base alla propria capacità visiva, secondo le condizioni della luce, secondo il proprio particolare stato d’animo. Insomma, anche se io posso vedere l’occhio di quella persona che guarda la montagna, il fiume, la terra, non posso in nessun modo vedere quel monte, quel fiume, quella terra che lui sta guardando.
Quindi benché noi, uno vicino all’altro, guardiamo come se stessimo vedendo lo stesso monte, fiume, terra, in realtà, dato che guardiamo mentre il monte, il fiume, la terra ed “io” che osservo mutano senza sosta, noi non stiamo assolutamente guardando la stessa montagna, lo stesso fiume, la stessa terra. Io vedo il panorama soltanto mio, lui vede il panorama che è soltanto suo. È un’astrazione pensare di guardare identiche montagne, stessi fiumi, uguale terra.
Concetto acquisito: il reale è soggettivo e dipendente dalle condizioni e interpretazioni del percepente. In realtà, i due guardano la stessa montagna ma essa viene sentita, percepita e inquadrata in modo differente: dalla materia indifferenziata i sensi fisici dei due estraggono la stessa immagine di montagna perché hanno le stesse limitazioni, la differenziazione sorge quando quei dati attraversano il corpo astrale e mentale e vengono sentiti da ciascuno in modo peculiare.
La montagna non esiste oggettivamente se non in virtù del fatto che i due hanno sensi fisici molto simili e in virtù di quelli e della loro similitudine “la estraggono” dall’indifferenziato: ma questa è solo la superficie della immensa questione della illusorietà del percepito.
Grazie al Cerchio Firenze 77 sappiamo che i due, pur contemplando la stessa montagna, possono vedervi accadere scene affatto differenti in virtù del principio delle varianti: è questo principio che ci sprofonda nell’autentica illusorietà del presunto reale oggettivo.
Il pensiero di origine greca, che idealizza in Venere la bellezza femminile, che concepisce l’idea di cerchio a partire da cose rotonde, benché sia definito “ragione universale” è, in sostanza, astrazione, è pensiero concettuale. L’insegnamento di Śākyamuni, invece, non è pensiero astratto, concettuale, ma consiste nel vedere la realtà dalla base della mia concreta esperienza della vita. In breve, tutto ciò che è, deve la sua esistenza solamente all’esperienza della vita di questo “me” che è nato e vive. Quindi, io che faccio esperienza e la realtà stessa sono un’unica cosa.
Andrebbe definito chi è questo “me”, “io” che sperimenta, ma vedremo più avanti.
Proviamo a fare due esempi riguardo a ciò che si intende dicendo “vedere la realtà dalla base della mia concreta esperienza di vita”. Chi vuole imparare a suonare il pianoforte, sino a che non è in grado di farlo bene, deve sforzarsi e ingegnarsi per padroneggiare il movimento delle mani. In questa fase, più che la musica è importante la propria volontà di apprendere. Però, impratichendosi a poco a poco, quando si diventa davvero bravi le mani si muovono da sole anche senza fare particolare attenzione al loro movimento: in un certo senso è il pianoforte che, tramite una persona, suona se stesso. Il pianoforte e il suonatore sono uno.
L’acquisizione di tecnica e abilità rende il mezzo fisico, corpo/pianoforte, uno strumento idoneo a esprimere un sentire, il sentire/musica. Non essendoci sforzo nell’uso dello strumento, la focalizzazione è sull’espressione del sentire: focalizzati sul sentire ogni dualismo scompare, ed è per questa ragione che la musica (intenzione) il suonatore (veicolo/canale) lo strumento (mezzo) divengono uno.
Similmente si dice che, andando a cavallo, quando davvero si cavalca, non vi è uomo sopra alla sella né cavallo sotto di essa. Mentre io continuo in ogni caso a essere io fino in fondo e il cavallo è in ogni caso il cavallo, respiriamo lo stesso “respiro”. In quel momento non si può distinguere se sono io a montare il cavallo o se è il cavallo a portare me. Semplicemente i tre aspetti: io, cavallo, cavalcare, appaiono come un unico insieme. Questo modo di essere pieno di vita della totalità è detto “vera forma” o, semplicemente, “vita”.
Torna il problema della non definizione di questo “io”. Nella comprensione del Sentiero ha poco senso affermare “io fino in fondo”, subito qualcuno chiederebbe: io chi?
Un soggetto che cavalca può rimanere per tutto il tempo un soggetto o può scomparire come tale: è allora che cavallo e cavaliere divengono uno, ma questo accade perché quel”io”, quel confine di qualcuno che c’è nella sua soggettività, è andato superato e perduto.
L’energia vitale così intesa non è limitata a me, al cavallo, alle sole cose viventi. Anche un aereo che vola è questa energia vitale. L’uomo ha inventato e costruito l’automobile, ma la forza esplosiva della benzina che la fa muovere non è qualche cosa che è stata pensata e costruita dall’uomo. È l’energia della vita della natura.
Così pure il movimento dei pianeti, l’esistenza dello sterminato numero di galassie è tutto l’unica vita. Anche l’essere che vive limpidamente il sé originale5, manifesta chiaramente l’energia della vita della totalità proprio così com’è. Nell’immensa natura, la vita, che consiste in nuvole che sono al modo delle nuvole, in pioggia che è al modo della pioggia, in neve che è al modo della neve, è tutt’uno con “io vivo adesso”. La forma vera, la vita di questo “essere come si è” che è animata come fatto reale dal nostro metterla in pratica qui in questo momento, è il “me” che vive il sé originale autenticamente*, ed è, inoltre, “tutto” che esiste come sé, che esperisce concretamente la vita.
5 “L’essere che vive limpidamente il sé originale” è equivalente all’espressione trattata in precedenza (cfr. nota precedente) in una nuova formulazione. Questa espressività risente della visuale giapponese, già cinese, per la quale l’atto dello zazen consiste nel far coincidere ciò che sono con ciò che già ero, ovvero il sé personale con il sé originale, nelle parole di Watanabe. Si tratta di un particolare di carattere puramente epistemologico, nella pratica – rispetto alla visuale espressa per es. nel Dhammapada – non cambia nulla.
* “Il “me” che vive il sé originale autenticamente”. Può esistere un “me” che esprime il sé originale autenticamente? Bisogna vedere cosa si intende con questo “me”. Se per “me” si intende un aggregato dotato di forma, di sensibilità e di coscienza, se questo aggregato è libero dalla cognizione/costrizione della propria soggettività, allora diviene un non-soggetto, e pertanto manifesta il sé originale.
Il discrimine è l’assenza di un soggetto, ma cosa si intende con questa espressione?
Il pianista è un aggregato di forma, di sensibilità e di coscienza; il pianoforte è un aggregato di forma; la musica è l’intenzione che muove il pianista e attiva il pianoforte. Il pianista è Ciò-che-È compreso in tutta la sua interezza: talento e limite; comprensione e non comprensione; forma e carattere.
L’esperienza, dunque non la speculazione, ci dicono che il pianista può suonare o venire suonato: due esperienze molto differenti.
Nella prima, il caso in cui suona, è presente un soggetto, una comprensione di sé come di colui che suona, che è l’artefice del suonare; nella seconda, il venire suonato, quella percezione di sé come soggetto attivo non c’è, prevale l’essere nel flusso dell’intenzione che diviene gesto, della musica che attraversa il pianista e attiva il pianoforte superando ogni separazione tra i tre livelli: musica/intenzione-pianista-pianoforte divengono esperienza ed essenza unitaria.
Questa consapevolezza unitaria dell’esperire è resa possibile perché il pianista, con tutto il suo aggregato di essere, è scomparso nella sua qualificazione/interpretazione di sé: è accaduto che il sé originale ha suonato, non il pianista “me”, “io”.
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È uno studio che porta a nuove visioni. Non facile ancora muoversi in questi insegnamenti. Grazie per potervi accedere.
Grazie alle riflessioni di Uma e agli insegnamenti dei Cerchi, a cui il Sentiero fa riferimento, si amplia la visione di Dogen sulla soggettività dell’esperienza
e il testo appare chiaro.
Grazie Uma.
Grazie infinite per l’elaborazione e la facilitazione che apporti in concetti così fondamentali.