Fonti: Il cammino religioso, Bendowa, Stella del mattino. Tollini, Pratica e illuminazione nello Shobogenzo, Mediterranee.
Questo materiale è finalizzato alla formazione dei monaci del Sentiero contemplativo e non ha altra finalità. Il curatore interviene per interpretare Dogen alla luce delle comprensioni e interpretazioni proprie del Sentiero e non è mosso da alcuna intenzione esegetica.
Quindi, dato che tanto la vita che io vivo quanto la vita della natura stessa sono un’identica forza vitale, volendo usare parole più semplici per dire che il sé vive il sé autentico, si può dire che la vita è la vita, e, per dirlo senza usare di proposito la parola “vita”, non si può dire altro che “ogni cosa fa se stessa”.
Certamente. E dunque anche l’assassino fa se stesso, è se stesso. È il sé autentico? Qui si apre un grosso problema che chiariremo più avanti ma intanto possiamo dire questo: ogni cosa è ciò che è, quindi anche l’assassino è ciò che è ma questa condizione può essere osservata da due punti di vista affatto diversi: il punto di vista del divenire e quello dell’Essere. In entrambi i casi l’assassino è ciò che è ma nel primo caso è una perla di una collana, nel secondo caso è una perla senza collana. Vedremo più avanti.
Questo modo di essere è il modo di essere fondamentale stesso, però noi di solito misuriamo ogni cosa con la coscienza del nostro io individuale e finalizziamo il nostro comportamento a ottenere soddisfazioni. Questa è la base della visione soggettiva. Pensando che questa visione soggettiva sia “io” in senso comune, la esprimiamo tramite parole.
Utilizzando questa forma espressiva con la convinzione di aver scoperto un modo di pensare valido per me, per te, per la maggior parte delle persone, ha avuto origine il cosiddetto mondo del sapere che sviluppandosi, ha prodotto anche le attuali scienze naturali. Le scienze naturali non si limitano a un discernimento individualistico o a una semplice ricerca di soddisfazione personale, ma ricercano quale sia il giovamento comune agli uomini in generale. La civiltà scientifica, che è progredita in base a questo tipo di accumulazione, è forse in grado di risolvere ogni problema dell’uomo nell’ambito di ciò che ha che fare con l’essere vivo, ma non può risolvere il problema della mia morte. Infatti la vita non comporta soltanto essere vivi, ma anche il morire.
Fondamento dell’insegnamento di Śākyamuni è pensare la propria vita a partire dal fatto che questa vita senz’altro muore. È importante vivere iniziando prima di tutto dalla tranquilla accettazione della morte. Il che non vuol dire pensare al mondo dopo la morte, vuol dire la vita dopo aver chiarito la morte. Questo è l’atteggiamento vitale fondamentale dell’uomo armonizzato al ritmo della vita che è nascere, vivere, morire.
Śākyamuni, rivolto ai discepoli, subito prima di morire raccomandò loro di usare, dopo la sua morte, come lume votivo la “realtà” (la vita vera che forma tutto ciò che esiste), raccomandò di fare del “sé” il proprio lume votivo6. Usare la realtà così intesa come lume non vuol dire fare di un ente assoluto e trascendente, come è definito Dio, l’oggetto della propria fede. Né pregare per la grazia, né obbedire a dei comandi.
Insomma, Śākyamuni ha impedito che si facesse di lui stesso l’oggetto della fede. Inoltre, insegnando a servirsi di sé come luce, ha indicato la direzione per cercare la verità rivolgendosi verso se stessi, invece di cercare la luce altrove. Ciò significa che Śākyamuni ha negato anche qualunque autorità, come oggetti di fede, agli scritti che trattano della divinità e persino ai testi sacri che hanno annotato parole e atti di Śākyamuni stesso.
6 È il riferimento ad una frase del Sutra del Nirvana. Al paragrafo 33 della II sezione della versione pali del sutra troviamo: “Siate isola per voi stessi, prendete rifugio in voi stessi e non in altro”. Il termine dīpa, qui tradotto isola, in pali significa sia “isola” sia “luce” o “lampada”, per cui la frase potrebbe essere resa anche con: «Siate lampada (o luce) per voi stessi, prendete rifugio in voi stessi e non in altro». Siccome in sanscrito, contrariamente al pali, il termine dīpa significa univocamente “lampada, luce” la versione cinese (e quindi giapponese), che fu tradotta dal sanscrito, porta invariabilmente “luce, lampada” e non “isola”. Il senso è ancora quello espresso nelle note 4 e 5.
Quello fin qui esposto è l’atteggiamento fondamentale da cui all’inizio è partito Śākyamuni. Egli stesso, illuminando il sé nella luce della realtà, illuminando la realtà nella luce del sé7, ha percorso il cammino che passa attraverso l’esperienza vitale della “realtà” e del “sé”, e in base a questo percorso effettivamente vissuto è divenuto “l’uomo che ha aperto gli occhi completamente alla realtà vera di ogni cosa”. Aprire gli occhi al vero modo di essere della “realtà” ha il significato di autentica coscienza del “sé”, e questa autentica coscienza del “sé” ha il significato di vero modo di essere della “realtà.”
7 Non è solo un gioco di parole. La prima parte indica il tempo in cui la nostra attenzione è rivolta dentro di noi; durante lo zazen la scomparsa delle nostre immaginazioni illumina il nostro spirito nel senso che lo libera dalla copertura opaca dei nostri pensieri. Illuminare la realtà alla luce del sé indica il tempo in cui ci muoviamo nel mondo senza il diaframma delle nostre congetture, permettendo a noi stessi di rapportarci alla realtà così come è.
Quindi, fin dal primo momento, insieme alla “pratica” è fondamentale, per aprire gli occhi chiaramente al modo di essere del tutto, la “sapienza” che conosce chiaramente così come è il modo di essere di ogni cosa.
Śākyamuni che ha aperto in tal modo la via, avendo esplicitamente impedito di fare di se stesso l’oggetto della fede, ha chiesto ai suoi discepoli di percorrere l’identica strada nella stessa direzione per cercare di conoscere se stessi fino in fondo, in modo da dischiudere dentro di sé il modo di essere vero.
L’uomo si chiede dove sta andando, che cosa è l’uomo stesso, dove si trova il luogo del proprio stabile fondamento, che cosa è la vera natura autentica di sé: Śākyamuni rivolto a noi pone questi interrogativi. Bene, noi con quali strumenti, in che modo rispondiamo? Qui è lo zazen. Kōhō Watanabe8
8 Aomori 1942 – Kuki 2016. È stato abate del monastero Antaiji dal 1975 sino al 1987 quando venne in Italia per realizzare nei fatti l’incontro tra Zen e Vangelo la cui vocazione aveva ereditato dal suo predecessore, Kōshō Uchiyama. Negli anni trascorsi in Italia, ovvero sino al 1993, ha lavorato alla stesura in lingua giapponese moderna dei capitoli più importanti dello Shōbōgenzō. Per una biografia più completa cfr. Piccola guida al buddismo zen, n. 11 di p. 68 nella versione pdf e n. 41 nella versione e-pub.
In ruminatio…