Fonti: Il cammino religioso, Bendowa, Stella del mattino. Tollini, Pratica e illuminazione nello Shobogenzo, Mediterranee.
Questo materiale è finalizzato alla formazione dei monaci del Sentiero contemplativo e non ha altra finalità. Il curatore interviene per interpretare Dogen alla luce delle comprensioni e interpretazioni proprie del Sentiero e non è mosso da alcuna intenzione esegetica.
[1] [Traduzione Watanabe-Stella del mattino] A partire dal fondatore del buddismo, Śākyamuni, tutti coloro che hanno vissuto vedendo chiaramente il giusto modo di esistere, mentre hanno ininterrottamente continuato a trasmettere da una persona che aveva realmente quel carattere a un’altra che a sua volta lo possedeva, hanno testimoniato questo modo di vivere perfettamente armonioso. Non vi è che un modo supremo al di là della nostra volontà, che è base e fondamento di quel modo di essere. Questo modo è come versare tutta l’acqua di un recipiente così com’è in un altro10.
10 La metafora (di origine cinese) non è presente nel testo originale di Bendōwa, Dōgen la utilizza altrove, nella sezione Gyōji (Costanza nella pratica di ogni momento) dello Shōbōgenzō. Ciascuno interpreta e manifesta la via secondo se stesso e si tratta di non aggiungere né togliere alcunché seguendo le nostre fantasie e ragionamenti. Per questo: “tutta l’acqua” e “così com’è”.
Ciò che è così trasmesso è l’individualità che vive il sé11 originale in forma autentica; proprio questo modo di vivere è la base, la norma caratteristica dell’insegnamento di Śākyamuni12. Portare a compimento questo modo di vivere, poiché è rendere se stessi veramente liberi, è gioia, è gioco. La forma concreta che costituisce il fulcro di questo modo di vivere è lo zazen.
11 Nella I edizione avevamo scritto “Sé”, maiuscolo, cfr. n. 5 della Premessa.
12 L’espressione “insegnamento di Śākyamuni”, che nel testo ricorre numerose volte, è la traduzione scelta dal maestro Watanabe per dharma e buddha-dharma.
[1] [Traduzione Tollini] Tutti i Buddha-Tathagata267 insieme hanno trasmesso direttamente il Dharma268 misterioso e per giungere alla Suprema Illuminazione269 hanno un metodo misterioso che è supremo e incondizionato.270 Questo metodo che è stato trasmesso da Buddha a Buddha senza deviazioni e si basa sul jijuyû zanmai271 è il metodo consolidato. Per godere di questo samadhi,272 il metodo migliore è di sedersi in zazen nella posizione eretta.
267 Tathagata è uno dei vari epiteti del Buddha. Letteralmente significa: “venuto così com’è”.
268 Dharma (in giapponese hô) ha vari significati: 1. “Le cose, i fenomeni dell’esistenza” (normalmente scritto dharma); 2. L’insegnamento buddhista, e per traslato: la verità, la legge, la dottrina” (normalmente scritto Dharma). Qui si intende il secondo significato.
269 Anoku bodhai è la resa giapponese di anuttara samyak sambodhi, la Suprema Illuminazione.
270 “Incondizionato” in originale è mui. Okumura Shôhaku (a cura di), Bendôwa, Talk on Wholehearted Practice of the Way, Kyoto Sôtô Zen Center, 1993, p. 29, traduce con “unfabricated” e Nishijima Gudo Wafu & Cross Chodo, op. cit., vol.1, p. 1 traducono con “without intention”. Io preferisco “incondizionato” in quanto mui o il più famoso wu-wei del taoismo cinese, in ambito buddhista assume il significato di “assoluto, non condizionato”. Ciò che si vuole dire qui è che il metodo di cui si parla oltre a essere supremo è anche indipendente dalle condizioni particolari ed è valido comunque e sempre senza eccezioni. Questa espressione si trova anche nel Fukan zazengi.
271 “Il samadhi del ricevere e usare il proprio sé”. Zanmai è samadhi. Jijuyû letteralmente significa: “che usa (yû) ciò che da se stesso riceve (jiju). Quindi, “il samadhi che nasce da ciò che autoriceve, che riceve da se stesso“. L’aspetto importante in questo concetto è che il samadhi non è qualcosa che si acquisisce dall’esterno ma nasce e si sviluppa dentro il proprio sé. È il proprio sé che da se stesso fa sbocciare e usa il samadhi.*
È lo strutturarsi del sentire e il costituirsi del corpo akasico che realizzano la condizione unitaria. Il sentire unitario genera “poi” la visione/vita unitaria.
272 Samadhi è uno stato di profonda concentrazione e di pace interiore. È citato avanti, (vedi nota n.333) tra i “tre oggetti di studio” del buddhismo. In Dôgen questo termine può essere considerato sinonimo di illuminazione.
[1.1] [Traduzione Watanabe-Stella del mattino] A chiunque, sin dalla nascita, è dato con pienezza* il principio della condizione in cui la persona vive il sé originale genuinamente, però, se non passa attraverso il fare praticamente proprio zazen, quel principio non appare manifestato e se non lo si evidenzia nello zazen in realtà non lo si ha.
*A ciascuno è dato dalla nascita, e in pienezza – quindi senza limitazione – il principio/condizione del sé originale: la possibilità di vivere il sé originale.
Postulato di grande rilievo: così significa nell’interpretazione del Sentiero?
Oltre il divenire nel quale si trova a sperimentare, a ognuno è possibile l’accesso all’Essere.
In che grado? Questo è la prima domanda che mi sorge perché la condizione di sé originale/Essere non è un punto definito ma una “costellazione di punti” a cui, nel divenire, si accede a seconda di quanto il sentire/corpo della coscienza/corpo akasico è strutturato.
Il centro della condizione di Essere è senza tempo e quindi sempre presente, ma la possibilità di essere-in-esso, nel divenire, è relativa al possesso di un adeguato corpo akasico: se quel corpo non è strutturato, l’accesso all’Essere è inconsapevole ed episodico, molto episodico.
L’individuo accede all’Essere (alla “costellazione” di Essere) tutte le volte che non è prigioniero della barriera della propria soggettività: in quei casi si aprono spiragli, fratture nella coltre del divenire e delle identificazioni e la condizione di Essere diviene sperimentabile. Questo vale certamente per tutti, consapevole o inconsapevole che sia l’esperienza.
Il praticare o meno zazen non ha nulla a che vedere con l’avverarsi di questa esperienza. Le persone che si dedicano a una pratica artistica, a un’arte marziale, a uno sport hanno frequentemente questi accessi.
L’individuo che per evoluzione ha un corpo akasico maturo e strutturato, ha accesso più o meno stabile alla condizione di Essere (in questo caso si potrebbe anche dire “l’illuminato”, se il curatore non detestasse l’espressione).
In questo individuo, la presenza di un c.ak. evoluto è condizione perché lo stato di Essere sia lo stato su cui la consapevolezza è prevalentemente focalizzata: la lucidità di questa consapevolezza nulla ha a che fare con la pratica dello zazen.
→ Il sé originale diviene il sé feriale perché esistono le strutture per sentirlo e viverlo: è molto semplice, non occorre nessuna pratica. L’eventuale pratica, zazen, ha la funzione di creare le basi della non-identificazione: nel libero fluire, liberi dai bisogni e da sé, il velo del divenire si assottiglia e l’Essere domina e pervade la consapevolezza.
→ Quando il c.ak. non è strutturato (e dunque non siamo nella condizione di “illuminazione”), la pratica dello zazen crea le condizioni affinché – nell’ascolto, nella non-identificazione e nel libero fluire – porzioni della costellazione di Essere affiorino alla consapevolezza. Questo è il senso dell’espressione di Dogen: se non passa attraverso il fare praticamente proprio zazen.
→ Il prosieguo di questa frase non è condivisibile: se non lo si evidenzia nello zazen in realtà non lo si ha.
Il sé autentico è Essere e questo esiste aldilà del tempo del divenire ed è natura autentica di ogni creatura.
L’accesso a Essere, come abbiamo visto, nel divenire dipende la strutturazione del c.ak.: esiste per tutti come flash, e per chi ha conseguito una coscienza unitaria in modo relativamente stabile.
Questo in modo veramente indipendente dalla pratica dello zazen che si configura, in questa nostra visione, come la pratica privilegiata dell’ascolto del sentire/Essere e della non-identificazione.
→ Il sè originario esiste e si manifesta a prescindere, indipendentemente da una pratica: si manifesta nel vivere e sperimentare, la prima e ultima pratica. Si manifesta perché nell’individuo immerso nel divenire esistono le strutture per la sua manifestazione: a seconda del grado di strutturazione, la manifestazione dell’Essere è più o meno vasta e stabile.
La pratica dello zazen è parte della pratica più vasta dell’ascolto incessante del sentire, di quella pratica contemplativa che è la cifra del Sentiero.
Dal momento che vivere genuinamente il proprio essere originale equivale a spezzare il recinto del vecchio “me” pensato in base alle abitudini e all’intelletto, se si demolisce questo recinto si dischiude l’ampiezza e la profondità del mondo senza limiti e volendolo esprimere a parole se ne può parlare a piacere.
Nel Sentiero diremmo: liberarsi del condine identitario, dell’immagine di sé.
La persona che ha questo modo di vivere senza confini, illimitato, volutamente non dà adito, in alcun ambito, alla consapevolezza* di star vivendo una vita illimitata, senza confini. Infatti, essendo la realtà senza limitazioni, la persona che la vive e questa stessa realtà non possono essere differenziate come fossero due13.
13 Nel momento in cui pensassi “sto vivendo una realtà senza limitazioni” di quella realtà avrei fatto un oggetto di pensiero: la realtà e io saremmo due.**
*/**Difficilmente condivisibile: c’è il pensare e c’è il sentire. Se penso alla illimitatezza essa diviene altro da me, ma se sento l’illimitatezza essa è una consapevolezza unitaria. Va da sé che quel sentire unitario divenga anche pensiero specchio di un sentire; poi, certo, in quanto pensiero ha sempre una connotazione duale ma direi che, essendo preminente ciò che sento, questa dualità divenga irrilevante.
D’altra parte, indipendentemente dal fatto che a tutti sia già stata data la possibilità di vivere genuinamente il proprio modo di essere fondamentale, quando vivo all’interno del recinto del vecchio “me” pensato secondo abitudini e intelletto, non si manifesta l’universo in quanto funzionamento della piena libertà. Questo avviene perché dividendo da un lato me stesso e dall’altro il mondo inteso come oggetto, proprio lì si stabilisce una delimitazione14.
14 È un riferimento alla pratica di ogni momento: sedersi in zazen e poi vivere con la testa piene di idee e opinioni su questo e su quello non è la via dello zen. Vivere costruendo oggetti nella mente e poi muoversi in base a quelle costruzioni è il modo del mondo.
Praticare lo zazen non vuol dire che, una volta fatto zazen, ne otteniamo qualcosa in cambio, oppure che procediamo costruendo qualche cosa: la totalità dell’esistenza che comprende me stesso è procedere rendendo vivente testimonianza della forma compiuta di ciò che è già se stesso.
Proprio in questo caso è in modo completo la forma di vita che non divide ogni cosa in due, secondo le categorie di “mio”, “tuo”, “io” e “altro da me”. Quando è questa completezza, le categorie e le differenze quali “io”, “tu”, “esistenza”, “modo di vivere fondamentale”, non servono più.
[1.1] [Traduzione Tollini] Sebbene questo Dharma sia intrinsecamente inerente in modo abbondante in ogni persona, non viene alla luce finché non si pratica e se non ci si illumina non si ottiene. Se lo lasci andare esso riempie le tue mani. Non rientra nei limiti di singolo o plurimo, se cerchi di parlarne ti riempie la bocca, e non ha limiti verticali né orizzontali. Tutti i Buddha risiedono costantemente al suo interno senza lasciar traccia di attività intellettuale discriminante273 in nessun luogo. La gente comune vi vive dentro e ne fa uso senza che esso si manifesti in nessun modo nella loro attività intellettuale discriminante.
L’impegnativa Via che ora insegno fa sì che tutte le cose esistano nell’illuminazione e la pratica per giungere (a comprendere ciò) non è che una sola.274 Quando superiamo la barriera e lasciamo cadere tutto, superiamo questo ostacolo.
273 Chikaku, letteralmente: “conoscenza intellettuale”. Waddell e Abe, The Eastern Buddhist, vol.IV, n.1, May 1971, p.129 traducono: “perception”.
274 Questa frase viene interpretata diversamente dai vari autori. Okumura (1993), op.cit., p.30, la rende come segue: “The wholehearted practice of the Way which I am talking about allows all things to exist in enlightment, and enables us to live out oneness in the path of emancipation”, mentre Nishijima Gudo Wafu & Cross Chodo, op.cit., vol.1, p.2, traduce: “The effort in pursuing the truth that I am now teaching makes the myriad dharmas real in experience; it enacts the oneness of reality on the path of liberation”. Waddell e Abe (May 1971), op. cit., p.129, la rende con:”by trascending realization, practices a total Reality”.
Il problema nasce dal termine shutsuro che letteralmente significa “via di uscita”, quindi la via per giungere a qualcosa. Altri interpretano questo termine con il significato di “emancipazione, uscita dalla condizione di illusione”, altri ancora come: “trascendere la realizzazione”. Io preferisco, “la pratica per giungere a”.
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