Fonti: Il cammino religioso, Bendowa, Stella del mattino. Tollini, Pratica e illuminazione nello Shobogenzo, Mediterranee.
Questo materiale è finalizzato alla formazione dei monaci del Sentiero contemplativo e non ha altra finalità. Il curatore interviene per interpretare Dogen alla luce delle comprensioni e interpretazioni proprie del Sentiero e non è mosso da alcuna intenzione esegetica.
[5] [Traduzione Watanabe-Stella del mattino] Trattandosi così della vita nel suo aspetto originario, ogni comportamento dell’uomo di zazen rende chiaro il modo di essere fondamentale e va creando, momento per momento, un rinnovato modo di vivere. Allora, dato che tutto ciò che esiste e ciascuna cosa, una per una, mostrano la forma autentica così come è, gli elementi del mondo naturale che noi di solito consideriamo oggetti, la terra, la vegetazione, i muri, le pietre, persino le pietre in quanto pietre, parlano con vigore di quel modo di essere.
Quando ne riconoscono la voce, all’udire quel discorso, tutti comprendono sicuramente fino in fondo che il sé vive solamente il sé originario e nient’altro*. Mentre il sasso proprio come sasso, e io proprio come me, ci incontriamo collaborando reciprocamente sull’identica base del vivere insieme il modo fondamentale di essere**, essendo un tutto armonico e manifestandosi sempre di più*** il modo di essere originario, questo zazen si diffonde in tutto il mondo, per l’universo intero.
*Ogni cosa/persona è Ciò-che-È: così finiscono tutti i discorsi per chi risiede nella dimensione unitaria e contempla/sente l’Essere che accade. Qui non c’è più qualcosa che diviene ma solo la realtà che È.
**Essendo ogni cosa/persona Ciò-che-È, si realizza l’unità di Essere: l’esperienza del Ciò-che-È è sempre implicitamente unitaria, non può considerare barriere o gradazione di stati, è oltre tutto questo.
***”Manifestandosi sempre di più il modo di essere originario“: l’espressione introduce la consapevolezza di una evoluzione nella manifestazione: la contemplazione di Essere è quella che abbiamo descritto sopra – priva di divenire/semplice Essere senza tempo – la manifestazione è un processo del sentire nel tempo.
Oggi la mia contemplazione di Essere non è molto differente da quella di trenta anni fa, ma il modo di incarnare l’Essere è piuttosto evoluto. Chiaramente, incarnando in modo più compiuto l’Essere anche l’accesso a esso, il sentirlo, è in parte mutato: in profondità e in frequenza. Questo perché l’esperienza è parte del circolo sentire-esperienza-sentire e contribuisce in modo determinante a strutturare il sentire stesso.
Tuttavia, questo zazen quando è praticato come puro zazen, non comporta neppure la consapevolezza: «Ora io sto facendo zazen». Infatti bisogna soltanto affidare completamente il proprio corpo e la propria mente alla forma stessa dello zazen. Non solo; riguardo al risultato dell’aver fatto zazen non vi è nemmeno l’acquisizione di un’esperienza particolare. Se pensassimo, come avviene di solito, di ottenere un qualche effetto come risultato del fare zazen, questo sarebbe la normale modalità del pensiero umano.
Invece non è possibile misurare con un’unità di misura stabilita in base a criteri umani il modo di essere di tutta la realtà, comprendente il sé fondamentale. Per esempio, durante zazen, se si ode un qualsiasi suono, non appena viene percepito dall’orecchio, immediatamente si originano eventi di vario tipo. Non bisogna pensare che lo zazen sia non avere alcuna reazione, una condizione di incoscienza o di insensibilità. Quel suono, che non è altro che un suono, fa solamente vibrare l’orecchio in modo chiaro, e non porta con sé alcun disturbo. Allo stesso modo, una determinata cosa, essendo quella cosa stessa nella propria forma completa, diffonde attivamente il modo di essere fondamentale e lo presenta chiaramente senza sosta.
Il suono è Ciò-che-È ma il sistema percepente è una complessità e come tale reagisce su molti piani con i diversi corpi: quella reazione, che si dipana a volte nel tempo mentre altre è solo un attimo, viene in zazen contemplata.
Contemplare significa osservare e sentire senza identificazione, senza autoattribuzione, senza che sorga un soggetto che affermi: mi riguarda. In virtù di questa disposizione, siamo nell’ambito del vasto Essere ed è per questo che Dogen può affermare che pratica e illuminazione coincidono.
Anche le piante, come pure tutta la terra, facendo risplendere la luce della verità, espandono per ogni dove quel modo di essere; così ognuno vivendo il proprio essere nel modo proprio, quindi con tranquilla naturalezza, esattamente così rende eloquente testimonianza della vera realtà.
Quando si è fondamentalmente se stessi, assimilati alla natura25 così com’è, allora non vi è neppure frattura tra me e “altro da me”* e questo insieme armonico non ha sosta neppure per un istante.
Scelta discutibile quella del traduttore di scrivere natura in minuscolo, quasi bastasse essere vicino alla condizione di natura per essere unitariamente disposto, dimenticando che la natura è il regno del duale, tanto più per un essere che dalle leggi della natura-natura si va affrancando fino ad abbandonarle con l’uscita dalla ruota delle nascite e delle morti.
*Il superamento della frattura non avviene perché sono assimilato alla natura, ma perché sono oltre la natura, completamente disidentificato da quella che definisco la mia natura (carattere, fisicità, affettività, cognitività).
Zazen mi colloca oltre me, in quello che Dogen chiama il sé e che nel Sentiero definiamo l’Essere (termine che speriamo di avere occasione di definire perché così è troppo vago).
È chiaro che quel sé contiene tutto il “me”, ma è anche chiaro che la consapevolezza è focalizzata, prevalentemente se non totalmente, sul sé, non sul “me”. Il “me” con tutte le sue caratteristiche, peculiarità, limitazioni, è assorbito in una consapevolezza molto più ampia e così relativizzato.
Nella vita ordinaria e magari non consapevole, il “me” soggettivo è spesso il fuoco della consapevolezza: nello zazen e nella vita consapevole – nello zazen diffuso, direi – il fuoco della consapevolezza è assorbito dal sé/Essere.
Per questo, l’essere in zazen è l’unione* con ogni modo di essere, l’unione con tutto il tempo; al proprio zazen è unita l’eternità detta presente passato e futuro. Di conseguenza, il momento presente e l’eternità, l’essere che sono e tutto il resto, non si distinguono; all’interno di questo zazen compaiono esistendo insieme.
*Così è. Ma per chi vive nella condizione unitaria tutta l’esistenza e ogni momento di essa è questo, a prescindere dalla pratica o meno dello zazen.
Questo non si limita al momento in cui facciamo zazen. Come a un colpo dato alla campana il suono vibra senza interruzione per l’aria, così pure, anche prima di essere colpita, la campana, semplicemente essendo una campana, emette il suo suono**.
Uno dei mille giochini concettuali e simbolici tanto cari allo zen, evocatori di infinito. Nel linguaggio del Sentiero: nel divenire la campana suona quando viene percossa; nell’Eterno Presente, nell’Essere, esiste sempre – aldilà del tempo – lo stato di vibrazione della campana come esiste, parimenti, lo stato di quiescenza di quel suono.
Allo stesso modo, in ogni aspetto della vita di colui che fa zazen continua a farsi sentire un limpido suono. Inoltre, vivendo in ogni aspetto, genuinamente, il proprio essere fondamentale come direzione e come forma concreta della propria vita, momento per momento si crea un mondo nuovo di cui nulla si può prevedere in anticipo.
È così. Chi ha familiarità con la pratica assidua sente il suo imprinting continuamente vivo e agente nel proprio intimo, in ogni frangente e senza sosta. Chi ha una pratica assidua ha in genere anche un sentire strutturato e l’uno alimenta l’altro; a un sentire limitato corrisponde frequentemente una pratica saltuaria, e dunque una irradiazione di questa molto relativa o comunque episodica. Accade anche, però, che un sentire evoluto non abbia alcuna necessità di zazen, o interesse a praticarlo.
Lo zazen che proprio ora noi facciamo, la cui influenza raggiunge ogni dove, è di una tale vastità che anche se tutti coloro i quali nel passato hanno praticato questo zazen, unendo le loro forze, tentassero di tesserne le lodi, non riuscirebbero a descriverlo. Né, a maggior ragione, è misurabile con criteri convenzionali.
In verità, io direi questo in relazione all’Essere, l’unitaria reale radice di tutti i praticanti, quella che li accomuna veramente e li rende unificati sia che siedano in zazen, sia che pratichino a testa in giù o che non si sognino nemmeno di avere una pratica.
25 Nella prima edizione avevamo scritto “Natura”, maiuscolo.
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